«Tu vai, io sono qui, se cadi sono qui»:
ricordo nitidamente il campetto di cemento screpolato sotto casa, la
bicicletta gialla di mio fratello, gli alberi di mandarini di là dal
muretto di protezione e l’espressione calma sul viso di mio padre quando
mi insegnò ad andare in bicicletta, consegnandomi con fiducia alle
strade del mondo e alle inevitabili sbucciature che dovevo imparare ad
affrontare per diventare grande. Nitidamente ricordo anche i racconti di
mia nonna sul nonno che non ho mai conosciuto: quando la guerra li
aveva separati per troppo tempo, si era procurato una malattia al fegato
mangiando non so quante uova. Il tutto per poter essere rimandato a
casa e stare qualche giorno con lei, e io, bambino incantato
dall’eroismo del nonno, decisi che da grande volevo amare così, come lui
aveva fatto con lei. Ricordo il giorno in cui il mio professore di
liceo mi prestò il suo libro di poesie preferito e mi disse di
restituirglielo dopo due settimane. Mi immergevo nelle pagine di versi
che non capivo, ricevevo la grande eredità della bellezza da un altro
uomo, le cui note al margine dei versi diventavano più importanti dei
versi stessi: mi introducevano nella sua storia e in quella di un poeta
di due secoli prima che giungeva fino a me, diciassettenne in cerca di
futuro.
Ricordo il sorriso costante di padre Pino Puglisi,
che incrociavo nei corridoi del mio liceo dove insegnava religione,
mentre le sue battaglie silenziose lo stavano portando alla morte,
comminata dai mafiosi perché, come risulta dall’interrogatorio del
sicario, «si portava i picciriddi cu iddu» (portava i bambini con lui).
Dove? Verso una vita a testa alta, semplicemente perché mostrava loro il
cielo stellato, li faceva giocare e studiare. Per questo era pericoloso
quanto Falcone e Borsellino, perché ri-generava quei bambini
strappandoli al controllo del padrinato e restituendoli alla paternità.
Li rendeva liberi: figli responsabili del mondo. I liberi, nella lingua
latina, erano infatti i figli che potevano ricevere l’eredità: la
libertà è appartenenza a una storia che si riceve gratuitamente e che ci
si impegna ad ampliare.
Non è un caso che alcuni istanti
siano scolpiti nella nostra memoria di bambini e adolescenti. La mia
memoria e quindi la mia identità è maturata nei momenti in cui qualcuno
mi ha consegnato, a prezzo del suo sudore, dolore, amore, l’esperienza
imperdibile del mondo perché io la custodissi e l’ampliassi. L’uomo che
sono e voglio essere lo devo al bambino-adolescente che ha ricevuto un
testimone da passare, da uomini e donne che, pur con le loro debolezze,
non badavano solo a se stessi, ma erano occupati a generarmi alla vita
interiore, dove si annida il nome proprio che ciascuno ha e dove si
origina l’energica consapevolezza di un inedito da fare. Solo le
relazioni vere riescono in questa impresa di aiutarci a crescere, ma per
essere generative devono prendersi tutto il tempo che serve: che cos’è, alla fine, amare se non donare il proprio tempo a un altro?
Me lo confermano tante lettere come questa: «Vengo da una famiglia che
non subisce le conseguenze della crisi e ho due genitori, separati, con
lavori che impegnano quasi la totalità del loro tempo. Ho tantissimi
oggetti: telefono ultimo modello, motorino, vestiti firmati, tutto
quello che voglio me lo comprano. So che starai pensando che sono un
ingrato, ma non mi basta tutto quello che ho. Molte volte capita che i
miei compagni di classe, all’uscita di scuola, vadano in ufficio dal
padre per prendere un panino per pranzo al volo o che le ragazze passino
la domenica con le madri per centri commerciali a fare shopping. Mi
chiedo a cosa serva lavorare tanto se poi alla fine non ti rimane tempo
per queste cose. Preferirei usare la metro o avere un cellulare scassato
ma poter andare ogni tanto a prendere un gelato con mio padre e parlare
di politica, calcio, scuola e lavoro. Oppure mi piacerebbe che mia
madre ogni tanto venisse la domenica alla partita di calcio proprio come
fanno tutte le altre mamme. Loro però sono talmente presi dagli affari
che non si accorgono che io viva la situazione come un disagio. Non c’è
niente di peggio che affrontare l’adolescenza senza la presenza dei
genitori».
Persino Ulisse diventò eroe da bambino e adolescente.
Infatti proprio alla fine dell’Odissea, in una delle scene che amo di
più, egli si presenta al padre Laerte ma non viene riconosciuto dopo
vent’anni d’assenza. Allora sceglie due segni per rivelarsi come suo
figlio. Gli mostra la ferita ricevuta durante la caccia al cinghiale
alla quale Laerte aveva inviato il ragazzo e poi lo porta nel frutteto
in cui, da bambino, il padre gli aveva insegnato uno per uno i nomi
degli alberi che gli avrebbe consegnato in eredità quando sarebbe
cresciuto. A quel punto Laerte riconosce (conosce di nuovo) Ulisse come
figlio, attraverso i sicuri segni di una storia comune: la ferita che ha
reso l’adolescente un uomo e la fedeltà alle cose e ai loro nomi di cui
lo ha reso responsabile sin da piccolo.
La crisi dell’educazione oggi ha
un’unica matrice: la difficoltà o la incapacità di generare
simbolicamente le vite, cioè di narrare la storia di cui si è parte e di
affidare una qualche eredità spirituale e morale da custodire e
sviluppare, dopo averla coerentemente difesa a costo della propria vita.
Nella lingua ebraica la parola per indicare la storia (Toledot)
significa «generazioni» perché è una storia di nomi e di compiti che
Dio consegna agli uomini, e loro ai figli: non una storia di eventi ma
di figli.
La crisi della trasmissione,
sia di identità sia di eredità, mina alla base la crescita, perché
taglia la radice che rende necessaria l’educazione: l’essere figli.
È questa la condizione originaria e originale di ciascuno, una
condizione non meramente biologica, ma spirituale, che si genera e
rigenera attraverso racconti, gesti, azioni, proprio come quando mio
padre mi prendeva in braccio e lanciava in aria, per spingermi nel
futuro con la sua forza, mentre mia madre voleva tenermi ancorato alla
terra del suo grembo: a che serve uno spazio di radici senza un
orizzonte di attesa di rami e frutti? La difficoltà a consegnare
un’esperienza credibile, una storia valida, un’eredità solida, rende
sterile qualsiasi relazione impegnata a far crescere l’altro: la
politica promette paternalisticamente il futuro ma nei fatti non lo
apre; l’arte si chiude in discorsi incomprensibili che di fatto
disprezzano l’uomo e poi, per raggiungerlo, si riduce a effimera
provocazione o seduzione commerciale; la scuola diventa addestramento,
scatola di prestazioni, ripetizione di pensieri altrui, anziché
acquisizione di un’esperienza custodita e raccontata per essere vagliata
e rinnovata da chi l’ha ricevuta.
Il letto da rifare di oggi, come
mostra la lettera, è il silenzioso urlo di orfani e diseredati, ragazzi e
ragazze generati alla vita ma non al senso della vita, riempiti di
oggetti ma privi di progetti, dimenticati da una politica divenuta
impotente (nel senso di sterile) di fronte alle cifre spaventose della
dispersione scolastica, della disoccupazione giovanile e della crisi
demografica. C’è una paternità che nutre
i figli perché siano migliori dei padri e una invece che, come Saturno,
li divora per paura che i figli caccino i padri. Due visioni
antitetiche contenute nei due sogni, relativi al defunto padre,
raccontati dal protagonista del libro di Cormac McCarthy Non è un paese per vecchi:
«Il primo non me lo ricordo tanto bene, lo incontravo in città e mi
regalava dei soldi e mi pare che li perdevo. Ma nel secondo sogno era
come se fossimo tornati tutti e due indietro nel tempo, io ero a cavallo
e attraversavo le montagne di notte. Faceva freddo e a terra c’era la
neve, lui mi superava col suo cavallo e andava avanti. Senza dire una
parola. Continuava a cavalcare, era avvolto in una coperta e teneva la
testa bassa, e quando mi passava davanti mi accorgevo che aveva in mano
una fiaccola ricavata da un corno, come usava ai vecchi tempi. E sapevo
che stava andando avanti per accendere un fuoco da qualche parte in
mezzo a tutto quel buio e a quel freddo, e che quando ci sarei arrivato
l’avrei trovato ad aspettarmi». I veri
padri aprono la strada, portano il fuoco e lo donano ai figli, nella
notte fredda e buia della storia, perché poi toccherà a loro fare
altrettanto, di generazione in generazione.
Ma come possiamo crescere quando i
padri rinunciano al loro ruolo di aprire la strada a chi viene dopo di
loro? Come possiamo sperare quando i maestri perdono il fuoco?
Possiamo ancora essere figli di qualcuno?
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