(di Alessandro D’Avenia)
Dove sono finiti gli occhi? Dove le mani? Non c’è traccia
dell’ordine divino del corpo, del ritmo armonico che regola la lunghezza delle
membra e le lega in unità al luogo che accoglie e apre la vita. In Pamela ormai
non c’è traccia di quella inesauribile promessa che è il corpo femminile, la
grazia non ha più modo di dispiegarsi per ricordare all’uomo che è fatto per
nascere e non per morire, che il corpo è carne luminosa dell’anima e non sua
prigione oscura. Occorre un’accurata autopsia perché quel corpo ci dica tutta
la verità, oltre lo sgomento, sulla violenza da cui gli uomini non sanno come
liberarsi se non, troppo spesso, al prezzo di «corpi» espiatori: Sarah, Yara,
Jessica, Pamela e tutte le giovani vittime dell’istinto sacrificale dell’uomo.
«Sorretta dalle mani degli uomini fu condotta agli
altari,/non per essere accompagnata a luminose nozze,/ma per cadere vittima
proprio nel tempo delle nozze/perché la flotta avesse una partenza felice./A un
così atroce misfatto poté spingere la superstizione». Ifigenia, emblema mitico
delle ragazze in fiore, sacrificate agli dei con l’inganno per far vincere agli
uomini la loro guerra, come racconta senza sconti Lucrezio nel suo poema sulla
Natura del Mondo, ci mostra quanto la cronaca odierna affondi le sue raggelanti
radici nel cuore di tenebra degli uomini di tutti i tempi: il corpo delle donne
è spesso destinatario dello sfogo della violenza, carne da sacrificio per
idolatrie antiche e nuove. Perché?
Da come una cultura tratta il corpo della donna si può
comprendere la verità su quella cultura. Per questo un nobel della letteratura
poteva dire che l’anima «sparisce, ritorna, si avvicina, si allontana,/a se
stessa estranea, inafferrabile,/mentre il corpo c’e, e c’e, e c’e/e non trova
riparo». Sono i versi della poetessa Wisława Szymborska in Torture a ricordare
che il corpo delle donne c’è in modo assordante e non trova riparo, torturato e
sacrificato sull’altare dell’abbandono e di abusi fisici e psicologici troppo
spesso taciuti, sull’altare della pornografia e della prostituzione, delle
guerre pubblicitarie, della droga che non è mai (chi sta a contatto con i
ragazzi lo sa) leggera, sull’altare della perfezione, del piacere violento, di
irrazionali regole religiose, e su tutti gli altari di chi costringe i corpi a
essere solo superfici. Il corpo è invece il segno di una unicità fatta carne da
custodire con tutte le gradazioni che l’amore — il gioco delle anime e dei
corpi — sa inventare: una carezza, un abbraccio, un bacio, o soltanto un
sorriso.
Soltanto così il corpo della donna diventa per noi, eterni
principianti della vita, una mappa che dobbiamo imparare a comprendere con mani
disarmate e occhi attenti. A volte capita di intercettare nelle movenze di una
donna una strana leggerezza che rende gesti e sguardi di una stoffa rara,
rivela e nasconde l’inizio o la pienezza di un amore, uno stilnovo di parole e
gesti. C’è molto di più da sapere sulla vita nel corpo di una donna alle otto
del mattino, senza trucco sugli occhi ancora assonnati, che nelle pagine di
cronaca, perché ogni elemento di quel corpo, sinfonia di dettagli, non canta
solo se stesso ma l’unità profumata della vita che vive quando ama ed è amata.
Le ciglia sfarfallano, la luce esce dagli occhi più pura, e inattesi animali si
nascondono nelle membra, il cigno nel collo, la tigre nelle gambe, i delfini
nelle dita e i fenicotteri che cambiano colore, dal bianco al rosa, nel viso.
Il corpo di una donna può contenere tutto il cosmo, per questo il racconto
della Genesi coglie nel segno, narrando che, dopo che tutte le cose furono
fatte, il corpo della donna fu modellato per ultimo, finale inatteso nel gran
film delle origini. Quel mistero di carne è la sintesi di tutte le cose
precedenti, il compimento e superamento di tutta l’opera fatta. Chiunque avesse
sfregiato quel corpo avrebbe rovinato anche alberi, corsi d’acqua, orbite
celesti, ordine delle stagioni e tutte le relazioni che da quel corpo
dipendono. Così se viene ferita la donna viene ferita tutta la realtà, e non
per un sentimentale luogo comune, ma perché se il corpo capace di albergare e
dare la vita viene avvelenato, la vita tutta è avvelenata, come un fiume alla
fonte. Forse per questo un giorno mia madre mi consigliò un libro di Julie
Otsuka, Venivamo tutte per mare, dicendomi: «Narra di donne sfruttate durante
la guerra mondiale e la protagonista è un noi corale». Incuriosito
dall’artificio narrativo le chiesi come mai, e lei mi rispose: «Perché il
dolore di una donna è il dolore di tutte le donne, e di tutte le cose».
Nessun taglio è stato fatto a caso o risparmiato, raccontano
i medici che hanno curato l’autopsia di Pamela e di Jessica. Allora penso a
tutti i tagli che sui loro giovani corpi tante ragazze si infliggono pur di non
sentire, almeno per qualche istante, il dolore di essere al mondo come in una
prigione. Conservo la lettera di una di loro che aveva scoperto, attraverso un
libro, la gioia di donare il sangue, e anche questo l’aveva aiutata a guarire
dal suo autolesionismo. Mi scriveva parole da cui ho compreso quanto il corpo
di una donna sia il vero campo di battaglia tra l’essere e il nulla per una
intera civiltà: «Io con il sangue ho avuto un rapporto negativo. Il sangue l’ho
cercato, desiderato, versato, sprecato. Tante notti in bianco alla ricerca del
rosso di quel sangue... e quelle poche gocce che sgorgavano dai tagli non
bastavano mai. Per quanto negativo l’autolesionismo è stato un mezzo per capire
il dolore, la dipendenza, la solitudine: ora riesco a non giudicare chi si
trova in situazioni simili, riesco a capire il mio ragazzo che viene da
un’esperienza di abbandono. Una delle prime volte gli ho parlato del mio
problema: lui mi ha preso il braccio, ha guardato le cicatrici e ha detto:
“Beh, ti sei semplicemente graffiata passando vicino a delle rose”. Tanti hanno
tentato di darmi consigli, ma solo questa frase mi ha dato la forza per
smettere... una cosa così mostruosa come l’autolesionismo diventa un graffio di
rose». Lo diventa grazie all’amore di un ragazzo che sa sfiorare quelle ferite.
Penso anche ai corpi che si dissolvono nel controllo totale
del peso, fino a collassare sull’altare della vita come irraggiungibile
perfezione. In questi anni di scuola ho visto tanti corpi disfarsi, lanciando
segnali impossibili da ignorare.
Cambiano i nomi e volti degli dei di questi sacrifici ma,
fino a che i corpi verranno martoriati, la vita non potrà scorrere pura, né il
caos trovare ordine. Tutta la violenza sul corpo delle donne è indirizzata alla
loro capacità di essere e tessere la vita, proprio come Ifigenia condotta al
rito sacrificale mentre le era stato falsamente promesso quello nuziale: il
mito ci ricorda ciò che non dobbiamo e possiamo dimenticare, perché purtroppo
assai spesso pretendiamo di allontanare a colpi sterili di moralismo i mali di
cui alimentiamo più o meno consapevolmente le cause.
Finché non smetteremo di usare il corpo delle donne come un
campionario per altri scopi, come il catalogo più completo del consumismo, non
smetteremo di distruggere le donne e con loro la vita stessa. In questo poeti e
scienziati concordano, svelando molto più di migliaia di macabri dettagli di
cronaca. Al nobel della letteratura Miłosz che in una poesia dice: «Quando c’è
la luna e le donne in abiti a fiori passeggiano/provo stupore per i loro occhi,
le loro ciglia e tutta l’organizzazione del mondo./Mi sembra che da una
propensione reciproca così grande/potrebbe finalmente risultare la verità
ultima», fa eco il nobel della fisica Heisenberg, quando scrive a sua moglie:
«Credo che, durante l’estate, metterò la fisica in un angolo buio, per
riprenderla più tardi, per prima cosa ho da imparare da te più che da tutti i
trattati del mondo».
Sono infatti uomini le cui mani hanno creato bellezza
duratura. Allora guardo le mie e le vostre e credo che il letto da rifare, come
suggerisce la lettera della ragazza, sia ritrovare la forza gentile che, nel
toccare il corpo di una donna, protegge, cura e guarisce la carne del mondo.
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