Diffido dell’istruzione
Lunedì 05 febbraio 2018
«Caro professore, sono un
sopravvissuto di un campo di concentramento. Ho visto ciò che nessuno
dovrebbe vedere: camere a gas costruite da ingegneri istruiti, bambini
avvelenati da medici ben formati, lattanti uccisi da infermiere
provette, donne e bambini uccisi e bruciati da diplomati e laureati.
Diffido – quindi – dell’istruzione. Aiutate i vostri allievi a diventare
esseri umani. I vostri sforzi non devono mai produrre dei mostri
formati, degli psicopatici qualificati, degli Eichmann istruiti. La
lettura, la scrittura, l’aritmetica non sono importanti se non servono a
rendere i nostri figli più umani». Fu il compianto dirigente della mia
scuola, qualche anno fa, a condividere questa lettera apparsa su Le
Monde in un pezzo della scrittrice Annick Cojean. L’occasione era il
Giorno della Memoria, ricorrenza sterile se non ricorda un fatto che il
XX secolo ha inciso nella storia a caratteri di sangue: non basta essere
istruiti per essere umani.
Il divorzio tra istruzione ed educazione è uno dei mali peggiori della scuola,
frutto del luogo comune secondo cui esisterebbe un’istruzione neutra.
Invece sempre si educa mentre si istruisce, perché la prima
comunicazione è quella dell’essere, e solo dopo arrivano le parole,
altrimenti non sarebbe necessaria la relazione viva con i ragazzi, ma
basterebbe caricare le lezioni sulla rete. In senso stretto non esiste
insegnamento in differita, ma solo in diretta.
Insegnare è una branca della drammaturgia. È l’essere dell’insegnante che genera la conoscenza,
perché apre la via al desiderio dello studente, che scorge nel docente
una vita più viva e libera grazie alla cultura e al lavoro ben fatto, e
la vuole anche per sé. Lo ricordava con precisione il nobel Canetti
nella sua autobiografia: «ogni cosa che ho imparato dalla viva voce dei
miei insegnanti ha conservato la fisionomia di colui che me l’ha
spiegata e nel ricordo è rimasta legata alla sua immagine. È questa la
prima vera scuola di conoscenza dell’uomo». Le nozioni più raffinate da
sole non rendono umani, tutto dipende da come gli insegnanti si
relazionano tra loro e con i ragazzi, perché, prima delle nozioni, sono
le relazioni a essere generative dell’io e del sapere. È nella relazione
che si impara a sentire il valore del sé come destinatario del dono del
sapere. Quali insegnanti siete tornati a ringraziare e per cosa? Per la
lezione sulle leggi della termodinamica e su Leopardi, o per come
vivevano e offrivano la termodinamica e Leopardi proprio a voi?
Qualche tempo fa mi scriveva uno studente: «Le racconto due esperienze.
La prima: la faccia polverosa della scuola. Un professore, che aveva
esordito in prima liceo con “siete troppi: vi ridurremo”, pochi giorni
fa ha condensato l’amore per il suo lavoro in questa frase: “Un
insegnante non deve avere cuore, deve avere un cuore di pietra...
altrimenti farà preferenze”. Uno scherzo, pensavamo. Un mio compagno
ribatte: “Ma no, prof! Un insegnante deve avere un cuore talmente grande
da non fare nessuna preferenza!”. “No, no: un cuore di pietra”. Parlava
seriamente. La seconda: la faccia luminosa della scuola. Quest’anno ho
scoperto la poesia grazie al gesto straordinario di un ordinario
professore di filosofia, che un giorno ci ha parlato della sua
giovinezza e di come la poesia ai tempi occupasse la sua vita e
impegnasse la sua fantasia. Interessato anche io dal momento che non
avevo letto nessun grande poeta ho chiesto un consiglio. Il giorno
seguente lo vedo estrarre dalla sua ventiquattrore un libricino
invecchiato. Viene verso di me. “Questo è per te”. Mi ha regalato una
delle sue copie di Elegie duinesi, di R.M. Rilke, il suo libro di poesia
preferito. Il libro della sua giovinezza!».
La differenza tra le due impostazioni è proprio quella che corre tra
chi si illude si possano separare istruzione ed educazione e chi invece
le tiene naturalmente unite. Nel primo caso si pensa che il docente sia
un distributore di nozioni, nel secondo la didattica è conseguenza
della relazione. Il primo professore educa all’insensibilità di cuore, a
non sentire l’unicità del tu, il secondo rende Rilke interessante prima
di averne letta una riga. Il nesso che tiene unite istruzione ed
educazione è nella realtà, e nessuna presa di posizione teorica le può
nei fatti separare. L’elemento che fa sì che educazione e istruzione
siano in efficace armonia è l’amore. Niente di sentimentale: l’amore è
una presa di posizione nei confronti della realtà e ne permette la
conoscenza, perché ne coglie il valore ancora potenziale da portare a
compimento con l’impegno personale. Non si può aumentare la conoscenza
di qualcosa senza che prima aumenti l’interesse nei confronti del
soggetto in questione (vale per l’amicizia come per la chimica). L’amore
genera conoscenza e la conoscenza ampliata rinnova l’amore: se il
docente non «erotizza» la materia, la materia per quanto ben conosciuta
resta inerte, come spiega Massimo Recalcati. Non esistono cose poco
«interessanti», ma uomini e donne poco «interessati», perché le emozioni
(la neurobiologia qui ci conforta) sono le guide che aprono la strada
allo sviluppo cognitivo. Solo così gli studenti diventano soggetti di
possibilità e non oggetti al peggio da ridurre o al meglio da riempire. È
questa la rivoluzione copernicana chiesta a ogni docente: non sono gli
alunni a ruotare attorno a lui ma il contrario. Un professore — il letto
da rifare oggi lo suggerisce lo studente della lettera — è chiamato ad
avere un cuore tale da non far preferenze perché preferisce tutti e
ciascuno diversamente: sfida difficilissima (quanti errori, quante
gioie...) ma decisiva.
È la stessa sfida narrata da Ovidio, nelle sue Metamorfosi, a proposito del mito di Pigmalione.
Uno scultore che, deluso da tutte le donne, si innamora della donna
ideale che ha scolpito nel marmo. Il suo trasporto è tale che gli dei
trasformano la statua in una donna in carne e ossa. Il mito viene usato
per descrivere lo sguardo educativo, il cosiddetto effetto-Pigmalione,
per il quale se un docente (ma vale per ogni educatore) guarda un alunno
convinto che farà bene, genererà in lui una fiducia in sé tale che,
nella quasi totalità dei casi, anche a fronte di un’inadeguata
disposizione iniziale, otterrà risultati positivi. L’effetto vale anche
in negativo: se sono convinto che non vali, l’effetto sui risultati sarà
coerente, anche a fronte di buone capacità. Lo sguardo educante non è
mai neutro ma sempre profetico, nel bene e nel male. Ne abbiamo conferma
quotidiana nel bambino che, appena caduto, si volge verso i genitori:
se si mostrano allarmati ne provocano il pianto, se sorridenti il
sorriso, quasi che il dolore, pur oggettivo, venga trasformato nello e
dallo sguardo. I ragazzi non hanno bisogno di insegnanti amiconi né
aguzzini, ma di uomini e donne capaci di guardarli come amabili soggetti
di inedite possibilità a cui non fare sconti. E non è questione di
missione o di poteri magici, ma di professionalità. Per questo l’appello
è il momento chiave della giornata scolastica: segna il tono della
relazione e fa sì che ognuno senta su di sé lo sguardo profetico che
spinge a far bene come conseguenza dell’esser bene. Il contrario del
«siete troppi, vi ridurremo», sterile autoritarismo, è il fecondo «sei
unico, ti aumenterò». La parola autorità viene da augeo (aumentare): la
esercita non chi ha il cuore molle o sprezzante, ma chi si impegna ad
aumentare la vita che ha di fronte, per quanto fragile, difficile,
resistente possa sembrare. Questa è l’istruzione di cui non diffido,
perché ispirata da un umanesimo maturo, l’umanesimo dell’altro uomo,
come lo chiama il filosofo Lévinas, che fa del tu il cuore dell’etica e
smaschera il falso umanesimo dell’istruito incapace di sentire il tu,
tanto da distruggerlo proprio attraverso l’istruzione.
Ma non è facile essere educatore in un sistema scolastico che asfissia di burocrazia e
svilisce la dignità sociale ed economica, e in un contesto culturale
che spesso attacca dall’alto (genitori) e dal basso (studenti). Ma
questi elementi possono anche diventare scuse per non fare ciò che è
alla portata di un uomo libero: prendersi cura di chi gli viene
affidato. Soltanto così diventiamo pigmalioni di ragazzi dal cuore caldo
e la testa fredda, a fronte del dilagare, tra gli adulti prima che tra i
giovani, di teste calde e cuori freddi.
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