lunedì 26 febbraio 2018

Conoscere se stessi


«Molte volte, conoscere se stessi, Socrate, mi è sembrata una cosa alla portata di tutti. Molte volte, invece, assai difficile». Così Alcibiade manifestava al maestro la sua preoccupazione di fronte alla fatica che comporta crescere. Socrate gli rispose: «Alcibiade, che sia facile oppure no, conoscendo noi stessi potremo sapere come dobbiamo prenderci cura di noi, mentre se lo ignoriamo, non lo potremo proprio sapere».

Qualsiasi riforma della scuola dovrebbe partire dall'affermazione di Socrate, che pone come fine della conoscenza la cura di se stessi e quindi del mondo. Nei fatti, però, il sapere al servizio della cura dell'uomo è oggi quasi impossibile in una scuola immobilizzata dalla burocrazia, corrosa dal precariato dei docenti giovani e dal cosiddetto burn-out, in italiano «bruciare completamente», dei meno giovani, «bruciati, scoppiati», potremmo dire, non per l'ordinario stress da lavoro, ma a causa di un vero e proprio esaurimento emotivo, figlio della mancanza di senso e riconoscimento per ciò che si fa. La demotivazione degli insegnanti, in un sistema che ne trascura la dignità, genera la corrispondente apatia nei ragazzi, privati così dell'essenza della scuola: l'orientamento, cioè l'aiuto prestato a un giovane in formazione per intercettare la parte di realtà in cui riuscirà a mettere in gioco il meglio di sé. Ed è proprio perché manca l’orientamento che troppi studenti lasciano la scuola, ritirandosi o anche solo arrendendosi mentalmente, incapaci di cogliere il proprio futuro: la formazione, senza orientamento, è sterile, non serve alla vita, alla presa sulla vita. Si sentono oggetti da prestazione e non soggetti di possibilità, atomi isolati e non storie che portano il nuovo nel mondo. E non possiamo stupirci se la naturale tensione al compimento di sé, quando non trova una meta, si corrompe in apatia o in violenza.

«Frequento la quinta superiore e non ho la più pallida idea di cosa voglio fare della mia vita (che cosa hanno fatto fino ad adesso gli insegnanti con me?). Come faccio a capire qual è la mia vocazione? Non mi aspetto una soluzione al problema, però ti chiedo se puoi aiutarmi a capire quali possono essere i criteri e i modi per scoprire ciò a cui sono chiamata». Ricevo da tantissimi studenti lettere come questa, a conferma che l'essere umano si definisce come tale solo se riesce a dar senso, significato e direzione, alla propria vita nel mondo che lo circonda: cioè impara ad abitarlo anziché subirlo. In questo senso i docenti sono mentori, guide per temporanei «non vedenti»: i ragazzi, con la vista ancora un po’ annebbiata, imparano passo passo ad orientarsi arrivando poi a «vedere» davvero.

Alla fine di 13 anni di scuola sono tantissimi i ragazzi che non sanno molto di sé. Per questo sono paralizzati dalla paura, come mostra il crescente fenomeno dei cosiddetti Neet (acronimo inglese di «not in education, employment or training»), cioè giovani che non studiano né lavorano, in Italia più di 2 milioni, di cui si è occupato Alessandro Rosina nel libro dedicato al nostro potenziale perduto proprio per l'inefficienza nella transizione scuola-lavoro. E questo dipende in gran parte dal fatto che la scuola non aiuta a scovare le proprie attitudini. Molti dopo le medie non sanno che strada intraprendere: liceo (quale?), formazione professionale, tecnica? Ricevono consigli approssimativi e, nei casi virtuosi, qualche test attitudinale. Spesso si finisce così per scegliere «cosa fanno gli amici» o «cosa dicono i genitori». Lo stesso accade alla fine delle superiori: fare o no l'università? Quale facoltà? Quale lavoro? Troppi sbagliano percorso, arrancano, cambiano, magari per scelte basate su copioni rassicuranti ma poco rispondenti alle reali attitudini. Il futuro si apre solo quando sboccia da dentro, non quando è mero contagio esteriore. L'orientamento all'ultimo anno si riduce a un catalogo di open-day; l’obiettivo delle università è attirare i ragazzi, spesso anticipando i test per vincolarli all'iscrizione preventiva, ignorando il peso del percorso di studi e dell'esame di maturità: in altre parole, ignorando la loro storia.

Nella scuola attuale l'orientamento è affidato al «volontariato» dei professori, quasi fosse una missione umanitaria e non un atto professionale richiesto dall'articolo 3 della Costituzione: «È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l'eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese». L'assenza di orientamento a scuola è causa di ingiustizia sociale, come spiegano due libri recentissimi che, partendo da impostazioni molto diverse, arrivano alla stessa conclusione: Federico Fubini, «La maestra e la camorrista - Perché in Italia resti quello che nasci» e Christian Raimo, «Tutti i banchi sono uguali - La scuola e l'uguaglianza che non c'è». I due autori mostrano che la scuola italiana invece di essere un ascensore sociale è, al meglio, un adattatore sociale, al peggio, causa e conferma delle disuguaglianze di partenza: non porta novità, ma tacito adeguamento. L'alternanza scuola-lavoro si sta dimostrando, soprattutto nei licei, un'illusione di orientamento, che spesso catapulta i ragazzi in realtà inadatte alle loro attitudini o avulse dal lavoro reale. Mandarli a «lavorare» senza prima aver capito qual è la «bottega» in cui mettere a frutto i propri talenti, rende il lavoro una finzione che di orientativo e formativo ha poco.

Per queste ragioni a metà maggio cerco di concludere lezioni e verifiche per dedicarmi all'esplorazione dei talenti, coinvolgendo genitori e colleghi. È risultato efficace un percorso di scrittura autobiografica. Attraverso le tecniche del genere i ragazzi provano a scrivere la loro autobiografia, cosa che li costringe alla riflessività: oggi è il punto nevralgico della conoscenza di sé, ostacolata dallo stile cognitivo frammentario tipico della rete. I ragazzi si sorprendono del potere esplorativo della scrittura, della propria grafia su un foglio bianco che somiglia alla loro anima, su cui hanno finalmente presa. Garantendo la continuità didattica (avere la classe per un ciclo intero dovrebbe essere la normalità), si potrebbero dedicare di anno in anno, letture, incontri e test mirati a scovare e coltivare gli interessi di ciascuno. Sogno una scuola così perché è stato fatto così con me e questo mi ha portato a scelte tanto difficili quanto felici. Un professore-mentore, quando ero combattuto tra seguire le orme paterne come dentista, con uno studio già pronto, e intraprendere l'ardua strada dell'insegnamento («sarai un morto di fame, sii realista» mi dicevano in tanti), mi chiese: hai 40 anni, cosa fai? Vai in studio a curare denti o in classe a raccontare storie? L'immagine fu risolutiva, ridimensionai molte paure per abbracciare più avvincenti incertezze, lasciando la mia città per studiare lettere classiche in un'altra che offriva corsi più adeguati. Ora che ho 40 anni ripenso a quella frase con grata commozione.

Solo chi ha vocazione provoca vocazioni, cioè nuove coraggiose esplorazioni del mondo. Il passo successivo è infatti scegliere «la bottega» dove imparare. Quando la madre di un dodicenne di provincia chiese al figlio che cosa volesse fare da grande e lui rispose con sicurezza: il pittore, lei lo prese sul serio e impegnò tutti i risparmi per mandarlo a Milano a bottega da un maestro. Il dodicenne, scrive un biografo, «studiò in fanciullezza per quattro o cinque anni, con diligenza ancorché di quando in quando facesse qualche stravaganza causata da quel calore e spirito così grande». E divenne Caravaggio.

Non riuscirei a fare l'insegnante senza prendere sul serio la vita futura dei ragazzi e credo sia questo il letto da rifare oggi, come richiesto dalla lettera riportata sopra. Socrate fu condannato a morte perché insegnava «nuove divinità e corrompeva i giovani», quando semplicemente li portava a riconoscere il proprio daimon, una forza interiore, a metà tra cielo e terra, che spinge al compimento di sé trasformando un destino in destinazione: «è qualcosa che è cominciato da bambino, come una specie di voce», così la definisce nella sua vana autodifesa. Potremmo per questo chiamarla: vocazione. Finché la scuola non rimetterà al centro la storia intera di un ragazzo, la sua voce, egli penserà che formarsi non serva a una vita migliore. I numeri della nostra dispersione scolastica (quintultimi in Europa, il 14% abbandona gli studi) confermano un sistema che fatica a mostrare che conoscere è prendersi cura di sé, e poi del mondo attraverso un lavoro.

Basterebbe dedicare le 200 (licei) o 400 (tecnici e professionali) ore dell'alternanza scuola-lavoro a un orientamento ben fatto per salvare tante voci, tante vocazioni. Cominciamo?
(Alessandro D'Avenia)

Sono quasi sempre  d'accordo con D'Avenia e anche questa volta sono sulla sua frequenza d'onda ma quando parla dell'alternanza scuola-lavoro no. Che i ragazzi debbano orientarsi e capire quale sarà la loro vocazione oppure in modo semplice capire qualcosa del loro futuro sono perfettamente d'accordo ma che l'alternanza sia una sorta di perdita di tempo, questo no.

Secondo me è un momento formativo importante per l'alunno che non è solo alunno ma si mette in quel momento nei panni del lavoratore anche se è sopportato dalla scuola. L'alternanza non è un far finta di andare al lavoro quando devo continuare a studiare. La mia esperienza negli istituti professionale probabilmente è diversa. Quasi sempre i ragazzi che tornano dall'esperienza chiamiamola di tirocinio o di stage tornano con un po di responsabilità in più rispetto al loro futuro. Apre la mente e oso aggiungere il cuore. Apre lo sguardo sul mondo dei lavoro dove le altre persone possono si essere tuoi amici ma sono prima di tutto tuoi colleghi.

E poi si, posso parlare di vocazione e di futuro. Anzi, non solo, anche di dispersione scolastica ma non è sicuramente negativa l'esperienza fuori dallka scuola.

In fondo sto ancora con D'Avenia che vuole maggiore attenzione da parte della scuola sui temi che interessano la crescita intera del ragazzo, orientandolo al meglio e aiutarlo a fare delle scelte ponderate.

E' l'impegno di ogni insegnante che prima di tutto è un educatore.
Una bella sfida!
Una sfida di ogni giorno.
E così ci sto. Voglio impegnarmi a far crescere nei ragazzi il senso critico di chi sceglie lui  e non delega le proprie scelte o ai suoi genitori oppure ai suoi compagni di classe.



lunedì 19 febbraio 2018

Corpi espiatori

(di Alessandro D’Avenia)

Dove sono finiti gli occhi? Dove le mani? Non c’è traccia dell’ordine divino del corpo, del ritmo armonico che regola la lunghezza delle membra e le lega in unità al luogo che accoglie e apre la vita. In Pamela ormai non c’è traccia di quella inesauribile promessa che è il corpo femminile, la grazia non ha più modo di dispiegarsi per ricordare all’uomo che è fatto per nascere e non per morire, che il corpo è carne luminosa dell’anima e non sua prigione oscura. Occorre un’accurata autopsia perché quel corpo ci dica tutta la verità, oltre lo sgomento, sulla violenza da cui gli uomini non sanno come liberarsi se non, troppo spesso, al prezzo di «corpi» espiatori: Sarah, Yara, Jessica, Pamela e tutte le giovani vittime dell’istinto sacrificale dell’uomo.

«Sorretta dalle mani degli uomini fu condotta agli altari,/non per essere accompagnata a luminose nozze,/ma per cadere vittima proprio nel tempo delle nozze/perché la flotta avesse una partenza felice./A un così atroce misfatto poté spingere la superstizione». Ifigenia, emblema mitico delle ragazze in fiore, sacrificate agli dei con l’inganno per far vincere agli uomini la loro guerra, come racconta senza sconti Lucrezio nel suo poema sulla Natura del Mondo, ci mostra quanto la cronaca odierna affondi le sue raggelanti radici nel cuore di tenebra degli uomini di tutti i tempi: il corpo delle donne è spesso destinatario dello sfogo della violenza, carne da sacrificio per idolatrie antiche e nuove. Perché?
Da come una cultura tratta il corpo della donna si può comprendere la verità su quella cultura. Per questo un nobel della letteratura poteva dire che l’anima «sparisce, ritorna, si avvicina, si allontana,/a se stessa estranea, inafferrabile,/mentre il corpo c’e, e c’e, e c’e/e non trova riparo». Sono i versi della poetessa Wisława Szymborska in Torture a ricordare che il corpo delle donne c’è in modo assordante e non trova riparo, torturato e sacrificato sull’altare dell’abbandono e di abusi fisici e psicologici troppo spesso taciuti, sull’altare della pornografia e della prostituzione, delle guerre pubblicitarie, della droga che non è mai (chi sta a contatto con i ragazzi lo sa) leggera, sull’altare della perfezione, del piacere violento, di irrazionali regole religiose, e su tutti gli altari di chi costringe i corpi a essere solo superfici. Il corpo è invece il segno di una unicità fatta carne da custodire con tutte le gradazioni che l’amore — il gioco delle anime e dei corpi — sa inventare: una carezza, un abbraccio, un bacio, o soltanto un sorriso.

Soltanto così il corpo della donna diventa per noi, eterni principianti della vita, una mappa che dobbiamo imparare a comprendere con mani disarmate e occhi attenti. A volte capita di intercettare nelle movenze di una donna una strana leggerezza che rende gesti e sguardi di una stoffa rara, rivela e nasconde l’inizio o la pienezza di un amore, uno stilnovo di parole e gesti. C’è molto di più da sapere sulla vita nel corpo di una donna alle otto del mattino, senza trucco sugli occhi ancora assonnati, che nelle pagine di cronaca, perché ogni elemento di quel corpo, sinfonia di dettagli, non canta solo se stesso ma l’unità profumata della vita che vive quando ama ed è amata. Le ciglia sfarfallano, la luce esce dagli occhi più pura, e inattesi animali si nascondono nelle membra, il cigno nel collo, la tigre nelle gambe, i delfini nelle dita e i fenicotteri che cambiano colore, dal bianco al rosa, nel viso. Il corpo di una donna può contenere tutto il cosmo, per questo il racconto della Genesi coglie nel segno, narrando che, dopo che tutte le cose furono fatte, il corpo della donna fu modellato per ultimo, finale inatteso nel gran film delle origini. Quel mistero di carne è la sintesi di tutte le cose precedenti, il compimento e superamento di tutta l’opera fatta. Chiunque avesse sfregiato quel corpo avrebbe rovinato anche alberi, corsi d’acqua, orbite celesti, ordine delle stagioni e tutte le relazioni che da quel corpo dipendono. Così se viene ferita la donna viene ferita tutta la realtà, e non per un sentimentale luogo comune, ma perché se il corpo capace di albergare e dare la vita viene avvelenato, la vita tutta è avvelenata, come un fiume alla fonte. Forse per questo un giorno mia madre mi consigliò un libro di Julie Otsuka, Venivamo tutte per mare, dicendomi: «Narra di donne sfruttate durante la guerra mondiale e la protagonista è un noi corale». Incuriosito dall’artificio narrativo le chiesi come mai, e lei mi rispose: «Perché il dolore di una donna è il dolore di tutte le donne, e di tutte le cose».

Nessun taglio è stato fatto a caso o risparmiato, raccontano i medici che hanno curato l’autopsia di Pamela e di Jessica. Allora penso a tutti i tagli che sui loro giovani corpi tante ragazze si infliggono pur di non sentire, almeno per qualche istante, il dolore di essere al mondo come in una prigione. Conservo la lettera di una di loro che aveva scoperto, attraverso un libro, la gioia di donare il sangue, e anche questo l’aveva aiutata a guarire dal suo autolesionismo. Mi scriveva parole da cui ho compreso quanto il corpo di una donna sia il vero campo di battaglia tra l’essere e il nulla per una intera civiltà: «Io con il sangue ho avuto un rapporto negativo. Il sangue l’ho cercato, desiderato, versato, sprecato. Tante notti in bianco alla ricerca del rosso di quel sangue... e quelle poche gocce che sgorgavano dai tagli non bastavano mai. Per quanto negativo l’autolesionismo è stato un mezzo per capire il dolore, la dipendenza, la solitudine: ora riesco a non giudicare chi si trova in situazioni simili, riesco a capire il mio ragazzo che viene da un’esperienza di abbandono. Una delle prime volte gli ho parlato del mio problema: lui mi ha preso il braccio, ha guardato le cicatrici e ha detto: “Beh, ti sei semplicemente graffiata passando vicino a delle rose”. Tanti hanno tentato di darmi consigli, ma solo questa frase mi ha dato la forza per smettere... una cosa così mostruosa come l’autolesionismo diventa un graffio di rose». Lo diventa grazie all’amore di un ragazzo che sa sfiorare quelle ferite.

Penso anche ai corpi che si dissolvono nel controllo totale del peso, fino a collassare sull’altare della vita come irraggiungibile perfezione. In questi anni di scuola ho visto tanti corpi disfarsi, lanciando segnali impossibili da ignorare.

Cambiano i nomi e volti degli dei di questi sacrifici ma, fino a che i corpi verranno martoriati, la vita non potrà scorrere pura, né il caos trovare ordine. Tutta la violenza sul corpo delle donne è indirizzata alla loro capacità di essere e tessere la vita, proprio come Ifigenia condotta al rito sacrificale mentre le era stato falsamente promesso quello nuziale: il mito ci ricorda ciò che non dobbiamo e possiamo dimenticare, perché purtroppo assai spesso pretendiamo di allontanare a colpi sterili di moralismo i mali di cui alimentiamo più o meno consapevolmente le cause.

Finché non smetteremo di usare il corpo delle donne come un campionario per altri scopi, come il catalogo più completo del consumismo, non smetteremo di distruggere le donne e con loro la vita stessa. In questo poeti e scienziati concordano, svelando molto più di migliaia di macabri dettagli di cronaca. Al nobel della letteratura Miłosz che in una poesia dice: «Quando c’è la luna e le donne in abiti a fiori passeggiano/provo stupore per i loro occhi, le loro ciglia e tutta l’organizzazione del mondo./Mi sembra che da una propensione reciproca così grande/potrebbe finalmente risultare la verità ultima», fa eco il nobel della fisica Heisenberg, quando scrive a sua moglie: «Credo che, durante l’estate, metterò la fisica in un angolo buio, per riprenderla più tardi, per prima cosa ho da imparare da te più che da tutti i trattati del mondo».

Sono infatti uomini le cui mani hanno creato bellezza duratura. Allora guardo le mie e le vostre e credo che il letto da rifare, come suggerisce la lettera della ragazza, sia ritrovare la forza gentile che, nel toccare il corpo di una donna, protegge, cura e guarisce la carne del mondo.


martedì 13 febbraio 2018

La donna dei fiori di carta

Non è il solito romanzo giallo di Donato Carrisi eppure come dice lui stesso in un'intervista il filo rosso dell'amore diventa e si colora di giallo.

L'amore è il tema centrale del libro. Non ci sono indagini come Carrisi ci aveva abituati.

Diciamo che è un romanzo "diverso" dai suoi thriller che non lasciano nemmeno un istante per riflettere e per fermarsi. Ma il materiale letterario e la fine scrittura ti prendono.

I protagonisti sono due. Un dottore e un prigioniero durante la guerra che si raccontano storie, avventure. Questo dottore ha il compito di scoprire il nome del militare prigioniero e il suo grado entro l'alba. Scoprirà ben più di un ruolo e un nome...



lunedì 12 febbraio 2018

Strada per liberarci da vanità e superbia


Cari fratelli e sorelle,
ancora una volta ci viene incontro la Pasqua del Signore! Per prepararci ad essa la Provvidenza di Dio ci offre ogni anno la Quaresima, «segno sacramentale della nostra conversione», [1] che annuncia e realizza la possibilità di tornare al Signore con tutto il cuore e con tutta la vita.
Anche quest’anno, con il presente messaggio, desidero aiutare tutta la Chiesa a vivere con gioia e verità in questo tempo di grazia; e lo faccio lasciandomi ispirare da un’espressione di Gesù nel Vangelo di Matteo: «Per il dilagare dell’iniquità l’amore di molti si raffredderà» (24,12).
Questa frase si trova nel discorso che riguarda la fine dei tempi e che è ambientato a Gerusalemme, sul Monte degli Ulivi, proprio dove avrà inizio la passione del Signore. Rispondendo a una domanda dei discepoli, Gesù annuncia una grande tribolazione e descrive la situazione in cui potrebbe trovarsi la comunità dei credenti: di fronte ad eventi dolorosi, alcuni falsi profeti inganneranno molti, tanto da minacciare di spegnere nei cuori la carità che è il centro di tutto il Vangelo.

I falsi profeti

Ascoltiamo questo brano e chiediamoci: quali forme assumono i falsi profeti?
Essi sono come “incantatori di serpenti”, ossia approfittano delle emozioni umane per rendere schiave le persone e portarle dove vogliono loro. Quanti figli di Dio sono suggestionati dalle lusinghe del piacere di pochi istanti, che viene scambiato per felicità! Quanti uomini e donne vivono come incantati dall’illusione del denaro, che li rende in realtà schiavi del profitto o di interessi meschini! Quanti vivono pensando di bastare a sé stessi e cadono preda della solitudine!
Altri falsi profeti sono quei “ciarlatani” che offrono soluzioni semplici e immediate alle sofferenze, rimedi che si rivelano però completamente inefficaci: a quanti giovani è offerto il falso rimedio della droga, di relazioni “usa e getta”, di guadagni facili ma disonesti! Quanti ancora sono irretiti in una vita completamente virtuale, in cui i rapporti sembrano più semplici e veloci per rivelarsi poi drammaticamente privi di senso!
Questi truffatori, che offrono cose senza valore, tolgono invece ciò che è più prezioso come la dignità, la libertà e la capacità di amare. E’ l’inganno della vanità, che ci porta a fare la figura dei pavoni… per cadere poi nel ridicolo; e dal ridicolo non si torna indietro. Non fa meraviglia: da sempre il demonio, che è «menzognero e padre della menzogna» (Gv 8,44), presenta il male come bene e il falso come vero, per confondere il cuore dell’uomo. Ognuno di noi, perciò, è chiamato a discernere nel suo cuore ed esaminare se è minacciato dalle menzogne di questi falsi profeti. Occorre imparare a non fermarsi a livello immediato, superficiale, ma riconoscere ciò che lascia dentro di noi un’impronta buona e più duratura, perché viene da Dio e vale veramente per il nostro bene.

Un cuore freddo

  Dante Alighieri, nella sua descrizione dell’inferno, immagina il diavolo seduto su un trono di ghiaccio; [2] egli abita nel gelo dell’amore soffocato. Chiediamoci allora: come si raffredda in noi la carità? Quali sono i segnali che ci indicano che in noi l’amore rischia di spegnersi?
Ciò che spegne la carità è anzitutto l’avidità per il denaro, «radice di tutti i mali» (1 Tm 6,10); ad essa segue il rifiuto di Dio e dunque di trovare consolazione in Lui, preferendo la nostra desolazione al conforto della sua Parola e dei Sacramenti. [3] Tutto ciò si tramuta in violenza che si volge contro coloro che sono ritenuti una minaccia alle nostre “certezze”: il bambino non ancora nato, l’anziano malato, l’ospite di passaggio, lo straniero, ma anche il prossimo che non corrisponde alle nostre attese.
Anche il creato è testimone silenzioso di questo raffreddamento della carità: la terra è avvelenata da rifiuti gettati per incuria e interesse; i mari, anch’essi inquinati, devono purtroppo ricoprire i resti di tanti naufraghi delle migrazioni forzate; i cieli – che nel disegno di Dio cantano la sua gloria – sono solcati da macchine che fanno piovere strumenti di morte.
L’amore si raffredda anche nelle nostre comunità: nell’Esortazione apostolica Evangelii gaudium ho cercato di descrivere i segni più evidenti di questa mancanza di amore. Essi sono: l’accidia egoista, il pessimismo sterile, la tentazione di isolarsi e di impegnarsi in continue guerre fratricide, la mentalità mondana che induce ad occuparsi solo di ciò che è apparente, riducendo in tal modo l’ardore missionario. [4]
Cosa fare?
Se vediamo nel nostro intimo e attorno a noi i segnali appena descritti, ecco che la Chiesa, nostra madre e maestra, assieme alla medicina, a volte amara, della verità, ci offre in questo tempo di Quaresima il dolce rimedio della preghiera, dell’elemosina e del digiuno.
Dedicando più tempo alla preghiera, permettiamo al nostro cuore di scoprire le menzogne segrete con le quali inganniamo noi stessi, [5] per cercare finalmente la consolazione in Dio. Egli è nostro Padre e vuole per noi la vita.
L’esercizio dell’elemosina ci libera dall’avidità e ci aiuta a scoprire che l’altro è mio fratello: ciò che ho non è mai solo mio. Come vorrei che l’elemosina si tramutasse per tutti in un vero e proprio stile di vita! Come vorrei che, in quanto cristiani, seguissimo l’esempio degli Apostoli e vedessimo nella possibilità di condividere con gli altri i nostri beni una testimonianza concreta della comunione che viviamo nella Chiesa.
A questo proposito faccio mia l’esortazione di san Paolo, quando invitava i Corinti alla colletta per la comunità di Gerusalemme: «Si tratta di cosa vantaggiosa per voi» (2 Cor 8,10). Questo vale in modo speciale nella Quaresima, durante la quale molti organismi raccolgono collette a favore di Chiese e popolazioni in difficoltà. Ma come vorrei che anche nei nostri rapporti quotidiani, davanti a ogni fratello che ci chiede un aiuto, noi pensassimo che lì c’è un appello della divina Provvidenza: ogni elemosina è un’occasione per prendere parte alla Provvidenza di Dio verso i suoi figli; e se Egli oggi si serve di me per aiutare un fratello, come domani non provvederà anche alle mie necessità, Lui che non si lascia vincere in generosità? [6]
Il digiuno, infine, toglie forza alla nostra violenza, ci disarma, e costituisce un’importante occasione di crescita. Da una parte, ci permette di sperimentare ciò che provano quanti mancano anche dello stretto necessario e conoscono i morsi quotidiani dalla fame; dall’altra, esprime la condizione del nostro spirito, affamato di bontà e assetato della vita di Dio. Il digiuno ci sveglia, ci fa più attenti a Dio e al prossimo, ridesta la volontà di obbedire a Dio che, solo, sazia la nostra fame.
Vorrei che la mia voce giungesse al di là dei confini della Chiesa Cattolica, per raggiungere tutti voi, uomini e donne di buona volontà, aperti all’ascolto di Dio. Se come noi siete afflitti dal dilagare dell’iniquità nel mondo, se vi preoccupa il gelo che paralizza i cuori e le azioni, se vedete venire meno il senso di comune umanità, unitevi a noi per invocare insieme Dio, per digiunare insieme e insieme a noi donare quanto potete per aiutare i fratelli!

Il fuoco della Pasqua

Invito soprattutto i membri della Chiesa a intraprendere con zelo il cammino della Quaresima, sorretti dall’elemosina, dal digiuno e dalla preghiera. Se a volte la carità sembra spegnersi in tanti cuori, essa non lo è nel cuore di Dio! Egli ci dona sempre nuove occasioni affinché possiamo ricominciare ad amare.
Una occasione propizia sarà anche quest’anno l’iniziativa “24 ore per il Signore”, che invita a celebrare il Sacramento della Riconciliazione in un contesto di adorazione eucaristica. Nel 2018 essa si svolgerà venerdì 9 e sabato 10 marzo, ispirandosi alle parole del Salmo 130,4: «Presso di te è il perdono». In ogni diocesi, almeno una chiesa rimarrà aperta per 24 ore consecutive, offrendo la possibilità della preghiera di adorazione e della Confessione sacramentale.
Nella notte di Pasqua rivivremo il suggestivo rito dell’accensione del cero pasquale: attinta dal “fuoco nuovo”, la luce a poco a poco scaccerà il buio e rischiarerà l’assemblea liturgica. «La luce del Cristo che risorge glorioso disperda le tenebre del cuore e dello spirito», [7] affinché tutti possiamo rivivere l’esperienza dei discepoli di Emmaus: ascoltare la parola del Signore e nutrirci del Pane eucaristico consentirà al nostro cuore di tornare ad ardere di fede, speranza e carità.
Vi benedico di cuore e prego per voi. Non dimenticatevi di pregare per me.

Già Quaresima

È già Quaresima.
Bello. Uffa. Di nuovo.
Sembra di vivere in un eterno Carnevale con i media ormai travolti dalle prossime elezioni. E con la vita che corre e corre così che davvero pensiamo, alla fine, di essere le maschere che quotidianamente indossiamo.
Benedetta Quaresima, allora, se riesce in qualche modo a darci uno schiaffo. A scuoterci. A rompere il mare di ghiaccio che è in noi. A farci alzare lo sguardo. Ad accorgerci di avere un’anima. A volare più in alto di quanto ci siamo rassegnati a fare.

Entriamo nel deserto, allora.
Quello raccontato dalla Bibbia.
Luogo di tentazione, di fatica, di prove estreme. Che tira fuori tutto ciò che siamo, nel bene e nel male. E non c’è bisogno di andarserlo a cercare, il deserto, ci attornia, ci assedia, anche se è fatto da strade trafficate e da mille stimoli e sollecitazioni. Ma il deserto, per Israele, è anche il luogo dell’innamoramento, dell’essenzialità, dei tramonti infuocati, delle tavole della Legge. Di tutta la luce che possiamo incontrare.
Fatica e luca. Pena e gioia. Esattamente ciò che viviamo.
La stessa realtà, la stessa vita, lo stesso deserto può diventare esperienza di pena infinita o apertura alla pienezza di luce.
La Quaresima ci aiuta a vivere un’esperienza di radicale conversione.
Imitando il cammino di Gesù.

Marco
L’evangelista Marco lascia poco spazio alle tentazioni di Gesù.
Diversamente da Matteo e da Luca non si dilunga nei dettagli, non cede alla descrizione, all’approfondimento. In pochi versetti liquida la faccenda ma non per distrazione o superficialità.
Piuttosto per eccesso di sintesi teologica.

E subito lo Spirito lo sospinse nel deserto e nel deserto rimase quaranta giorni, tentato da Satana.

Non è una cosa necessariamente negativa il deserto, dicevamo. A volte è lo Spirito a spingerci. Ci spinge perché non abbiamo tanta voglia di vivere nel deserto, perché preferiamo vivere nello stordimento della città. Fatichiamo a prenderci del tempo per stare da soli, ci spaventa il silenzio, forse e soprattutto perché nessuno ci ha mai insegnato ad abitarlo, a farlo fiorire.
E ci spaventa soprattutto il deserto che è la prova, la sete, la solitudine negativa, quella di chi si è perso. Ingenuamente immaginiamo che una vita realizzata sia una vita senza contrasti, senza incidenti, senza dolore.
A volte è lo Spirito a spingerci ad abitare il deserto. Il dolore, allora, diventa opportunità per andare all’essenziale.
E Gesù resta nel deserto, quaranta giorni come quaranta furono gli anni trascorsi da Israele a vagare nel Sinai prima di imparare a diventare un popolo libero. Solidale da subito. Niente sconti, niente privilegi. Anche Gesù ha dovuto affrontare le sue ombre.
Tentazioni, le chiama il Vangelo. cioè scelte, discernimento, capire cosa distrugge e cosa costruisce.
Non siamo soli a farlo.

Il nuovo Adamo
Pochi versetti che dicono molto.
Non soltanto Gesù non fugge il deserto ma asseconda lo Spirito. E, come noi, si lascia tentare. Fatica. Lotta. Matteo e Luca ci diranno che lo fa meditando la Parola e interpretandola nella giusta luce.
In quel deserto accade qualcosa di incredibile:

Stava con le bestie selvatiche e gli angeli lo servivano.

Gesù sta con le bestie selvatiche in assoluta armonia. Come san Gerolamo con il leone. O san Francesco con il lupo. È il nuovo Adamo, l’uomo risvegliato, l’uomo in piena armonia col creato, col cosmo, con le altre creature.
Se nel deserto, sospinti dallo Spirito, sappiamo superare le tentazioni, fare le scelte giuste, orientarci all’essenziale, verso Dio, recuperiamo il nostro rapporto primigenio, originario, col Cosmo. Non più dominatori o nemici, ma in profonda armonia con tutti e con tutto.
E se vogliamo insistere, se le bestie selvatiche, in qualche modo, per allegoria, rappresentano le nostre paure profonde, nel deserto, con Cristo, riusciamo a convivere anche con esse.
Di più.

Angeli
Secondo la tradizione biblica quando Adamo ed Eva vennero cacciati dall’Eden Dio mise alla porta del giardino degli angeli di guardia, per impedire che rientrassero. L’umano, prima, doveva imparare ad usare bene la libertà, straordinario dono di Dio.
Ora anche gli angeli si sono riconciliati con gli uomini. E li servono. Ci servono per aiutarci a recuperare la nostra dimensione originaria.

Ecco delineato il percorso da fare. Lasciarci spingere nel deserto dallo Spirito, come ha fatto Gesù, affrontare senza paura le tentazioni per recuperare in noi l’immagine del nuovo Adamo che è il Signore.
Per avere il cuore libero di accogliere il messaggio che il tempo è compiuto e il Regno si è avvicinato. Convertiamoci e crediamo al Vangelo.

Buon cammino.

(commento di Paolo Curtaz)

Non è un paese per figli

 
«Tu vai, io sono qui, se cadi sono qui»: ricordo nitidamente il campetto di cemento screpolato sotto casa, la bicicletta gialla di mio fratello, gli alberi di mandarini di là dal muretto di protezione e l’espressione calma sul viso di mio padre quando mi insegnò ad andare in bicicletta, consegnandomi con fiducia alle strade del mondo e alle inevitabili sbucciature che dovevo imparare ad affrontare per diventare grande. Nitidamente ricordo anche i racconti di mia nonna sul nonno che non ho mai conosciuto: quando la guerra li aveva separati per troppo tempo, si era procurato una malattia al fegato mangiando non so quante uova. Il tutto per poter essere rimandato a casa e stare qualche giorno con lei, e io, bambino incantato dall’eroismo del nonno, decisi che da grande volevo amare così, come lui aveva fatto con lei. Ricordo il giorno in cui il mio professore di liceo mi prestò il suo libro di poesie preferito e mi disse di restituirglielo dopo due settimane. Mi immergevo nelle pagine di versi che non capivo, ricevevo la grande eredità della bellezza da un altro uomo, le cui note al margine dei versi diventavano più importanti dei versi stessi: mi introducevano nella sua storia e in quella di un poeta di due secoli prima che giungeva fino a me, diciassettenne in cerca di futuro.
 
Ricordo il sorriso costante di padre Pino Puglisi, che incrociavo nei corridoi del mio liceo dove insegnava religione, mentre le sue battaglie silenziose lo stavano portando alla morte, comminata dai mafiosi perché, come risulta dall’interrogatorio del sicario, «si portava i picciriddi cu iddu» (portava i bambini con lui). Dove? Verso una vita a testa alta, semplicemente perché mostrava loro il cielo stellato, li faceva giocare e studiare. Per questo era pericoloso quanto Falcone e Borsellino, perché ri-generava quei bambini strappandoli al controllo del padrinato e restituendoli alla paternità. Li rendeva liberi: figli responsabili del mondo. I liberi, nella lingua latina, erano infatti i figli che potevano ricevere l’eredità: la libertà è appartenenza a una storia che si riceve gratuitamente e che ci si impegna ad ampliare.
 
 
Non è un caso che alcuni istanti siano scolpiti nella nostra memoria di bambini e adolescenti. La mia memoria e quindi la mia identità è maturata nei momenti in cui qualcuno mi ha consegnato, a prezzo del suo sudore, dolore, amore, l’esperienza imperdibile del mondo perché io la custodissi e l’ampliassi. L’uomo che sono e voglio essere lo devo al bambino-adolescente che ha ricevuto un testimone da passare, da uomini e donne che, pur con le loro debolezze, non badavano solo a se stessi, ma erano occupati a generarmi alla vita interiore, dove si annida il nome proprio che ciascuno ha e dove si origina l’energica consapevolezza di un inedito da fare. Solo le relazioni vere riescono in questa impresa di aiutarci a crescere, ma per essere generative devono prendersi tutto il tempo che serve: che cos’è, alla fine, amare se non donare il proprio tempo a un altro? Me lo confermano tante lettere come questa: «Vengo da una famiglia che non subisce le conseguenze della crisi e ho due genitori, separati, con lavori che impegnano quasi la totalità del loro tempo. Ho tantissimi oggetti: telefono ultimo modello, motorino, vestiti firmati, tutto quello che voglio me lo comprano. So che starai pensando che sono un ingrato, ma non mi basta tutto quello che ho. Molte volte capita che i miei compagni di classe, all’uscita di scuola, vadano in ufficio dal padre per prendere un panino per pranzo al volo o che le ragazze passino la domenica con le madri per centri commerciali a fare shopping. Mi chiedo a cosa serva lavorare tanto se poi alla fine non ti rimane tempo per queste cose. Preferirei usare la metro o avere un cellulare scassato ma poter andare ogni tanto a prendere un gelato con mio padre e parlare di politica, calcio, scuola e lavoro. Oppure mi piacerebbe che mia madre ogni tanto venisse la domenica alla partita di calcio proprio come fanno tutte le altre mamme. Loro però sono talmente presi dagli affari che non si accorgono che io viva la situazione come un disagio. Non c’è niente di peggio che affrontare l’adolescenza senza la presenza dei genitori».
 
Persino Ulisse diventò eroe da bambino e adolescente. Infatti proprio alla fine dell’Odissea, in una delle scene che amo di più, egli si presenta al padre Laerte ma non viene riconosciuto dopo vent’anni d’assenza. Allora sceglie due segni per rivelarsi come suo figlio. Gli mostra la ferita ricevuta durante la caccia al cinghiale alla quale Laerte aveva inviato il ragazzo e poi lo porta nel frutteto in cui, da bambino, il padre gli aveva insegnato uno per uno i nomi degli alberi che gli avrebbe consegnato in eredità quando sarebbe cresciuto. A quel punto Laerte riconosce (conosce di nuovo) Ulisse come figlio, attraverso i sicuri segni di una storia comune: la ferita che ha reso l’adolescente un uomo e la fedeltà alle cose e ai loro nomi di cui lo ha reso responsabile sin da piccolo.
La crisi dell’educazione oggi ha un’unica matrice: la difficoltà o la incapacità di generare simbolicamente le vite, cioè di narrare la storia di cui si è parte e di affidare una qualche eredità spirituale e morale da custodire e sviluppare, dopo averla coerentemente difesa a costo della propria vita. Nella lingua ebraica la parola per indicare la storia (Toledot) significa «generazioni» perché è una storia di nomi e di compiti che Dio consegna agli uomini, e loro ai figli: non una storia di eventi ma di figli. 

La crisi della trasmissione, sia di identità sia di eredità, mina alla base la crescita, perché taglia la radice che rende necessaria l’educazione: l’essere figli. È questa la condizione originaria e originale di ciascuno, una condizione non meramente biologica, ma spirituale, che si genera e rigenera attraverso racconti, gesti, azioni, proprio come quando mio padre mi prendeva in braccio e lanciava in aria, per spingermi nel futuro con la sua forza, mentre mia madre voleva tenermi ancorato alla terra del suo grembo: a che serve uno spazio di radici senza un orizzonte di attesa di rami e frutti? La difficoltà a consegnare un’esperienza credibile, una storia valida, un’eredità solida, rende sterile qualsiasi relazione impegnata a far crescere l’altro: la politica promette paternalisticamente il futuro ma nei fatti non lo apre; l’arte si chiude in discorsi incomprensibili che di fatto disprezzano l’uomo e poi, per raggiungerlo, si riduce a effimera provocazione o seduzione commerciale; la scuola diventa addestramento, scatola di prestazioni, ripetizione di pensieri altrui, anziché acquisizione di un’esperienza custodita e raccontata per essere vagliata e rinnovata da chi l’ha ricevuta.

Il letto da rifare di oggi, come mostra la lettera, è il silenzioso urlo di orfani e diseredati, ragazzi e ragazze generati alla vita ma non al senso della vita, riempiti di oggetti ma privi di progetti, dimenticati da una politica divenuta impotente (nel senso di sterile) di fronte alle cifre spaventose della dispersione scolastica, della disoccupazione giovanile e della crisi demografica. C’è una paternità che nutre i figli perché siano migliori dei padri e una invece che, come Saturno, li divora per paura che i figli caccino i padri. Due visioni antitetiche contenute nei due sogni, relativi al defunto padre, raccontati dal protagonista del libro di Cormac McCarthy Non è un paese per vecchi: «Il primo non me lo ricordo tanto bene, lo incontravo in città e mi regalava dei soldi e mi pare che li perdevo. Ma nel secondo sogno era come se fossimo tornati tutti e due indietro nel tempo, io ero a cavallo e attraversavo le montagne di notte. Faceva freddo e a terra c’era la neve, lui mi superava col suo cavallo e andava avanti. Senza dire una parola. Continuava a cavalcare, era avvolto in una coperta e teneva la testa bassa, e quando mi passava davanti mi accorgevo che aveva in mano una fiaccola ricavata da un corno, come usava ai vecchi tempi. E sapevo che stava andando avanti per accendere un fuoco da qualche parte in mezzo a tutto quel buio e a quel freddo, e che quando ci sarei arrivato l’avrei trovato ad aspettarmi». I veri padri aprono la strada, portano il fuoco e lo donano ai figli, nella notte fredda e buia della storia, perché poi toccherà a loro fare altrettanto, di generazione in generazione.
Ma come possiamo crescere quando i padri rinunciano al loro ruolo di aprire la strada a chi viene dopo di loro? Come possiamo sperare quando i maestri perdono il fuoco?

Possiamo ancora essere figli di qualcuno?

sabato 10 febbraio 2018

Venite nella nostra scuola non ci sono poveri, disabili e immigrati


appunti sparsi...

Pedagogia di don Milani

Classi plurali e pedagogia.
“venite nella nostra scuola, non ci sono poveri, immigrati e disabili”
quale tipo di scuola abbiamo in mente? Una scuola garantita e sicura. Cosa si apprende in quella scuola? Molte persone migrano nelle scuole cattoliche perché lì non ci sono degli studenti disabili oppure stranieri. Dovremmo “permetterci” di non iscrivere i nostri figli in quella scuola.

Che tipo di scuola abbiamo in mente? È una scuola selettiva e del privilegio?

La scuola di don Milani è una scuola esclusiva. Si parla di classismo evangelico. Ma allora non è una scuola per tutti?

Esperienze pastorali: i 7 figli della borghesia dell’intelligenza e i 130 figli dei disperati soltsnto 4 vanno oltre la licenza elem. E non vanno oltre. È la scuola come ospedale da campo di papa Francesco.

l’esperienza di Barbiana. Una scuola che parla il linguaggio dei ragazzi e che fa crescere. Di ciascuno conosce i nomi e le storie.

La scuola è lo strumento che rende più uomini i ragazzi-alunni.

1967 Lettera ad una professoressa: un anticorpo che serve ad ogni insegnante. Per non lasciarsi irretire da diverse ideologie. Una lettera che ha molto da dirci. Il segreto di Barbiana per poter fare scuola. È uno scritto con cui fare i conti. È un libro duro e spigoloso.

Ha un approccio costruttivo rispetto alla scuola. “Si faceva scuola e si mangiava” Un tavolo dove si fa scuola e si mangia. È lo stesso tavolo. Una vita dura; disciplina. “chi era lento e svogliato era il preferito”… “finchè non aveva capito non si andava avanti”
Nessuna ricreazione.
“le ore passavano serene”
Se vogliamo preparare delle persone avare oppure persone che possano costruire una comunità. Dare la parola ai poveri non parlare dei poveri.

L’ascolto è il primo movimento dell’educazione. Chi deve spiegare e annunciare. Va bene, ma il primo movimento dell’educazione è l’ascolto. A cosa serve la scuola?

Meritocrazia a scuola? Le persone capaci hanno un bel posto?
Qual’è la funzione della scuola? È dare a tutti la possibilità di essere protagonisti e di dare parola al proprio pensiero. La scuola favorisce invece la competizione e un approccio strumentale al sapere.

“giorno per giorno studiano per il registro e si distraggono per le cose belle che studiano… tutto è voto… il diploma è quattrini”

La scuola è un bene per tutti.

Sistema della scrittura collettiva: sono sperimentazioni di don Milani. Lettera ad una professoressa è scritta con questo sistema. c’è un processo di purificazione del pensiero.

Molte sono le lingue (francese, tedesco, spagnolo e anche arabo) A Barbiana diventano molte le occasioni dove poter fare lezione. 365 giorni l’anno e negli anni bisestili 367.

Brescia, rimproverato dai genitori, bimbo di 8 anni si impicca

Ad una notizia come questa si rimane senza parole.

Non si può aggiungere molto. Ci si chiede dove stiamo andando... qual'è il senso della vita e della nostra vita.

Un bambino che si toglie la vita è un controsenso che però esiste, è successo. Provo rabbia mista a tristezza pere questa umanità, fragile, che ha bisogno di essere accompagnata in ogni piccolo passo.

Non so nulla della vicenda. Rimango muto e immobile... ma non impassibile.

Mi interrogo sul senso della vita ma davvero anche sul senso della mia vita...
Per cosa mi sbatto ogni giorno? Per l'educazione? Per far imparare ai ragazzi a vivere, a saper affrontare le situazioni di difficoltà che nell'esperienza della vita incontreranno.

Non lasciamoli da soli nella nebbia e nel grigiore delle giornate. Non diciamo loro che la vita è solo bella e zuccherata e qualche volta un pò bastarda. Diciamo loro che a volte si può soffrire, si può essere tristi, si può essere richiamati ma ci si deve rialzare. Sempre.

lunedì 5 febbraio 2018

Insegnamento in diretta e non in differita

 

Diffido dell’istruzione

Lunedì 05 febbraio 2018
«Caro professore, sono un sopravvissuto di un campo di concentramento. Ho visto ciò che nessuno dovrebbe vedere: camere a gas costruite da ingegneri istruiti, bambini avvelenati da medici ben formati, lattanti uccisi da infermiere provette, donne e bambini uccisi e bruciati da diplomati e laureati. Diffido – quindi – dell’istruzione. Aiutate i vostri allievi a diventare esseri umani. I vostri sforzi non devono mai produrre dei mostri formati, degli psicopatici qualificati, degli Eichmann istruiti. La lettura, la scrittura, l’aritmetica non sono importanti se non servono a rendere i nostri figli più umani». Fu il compianto dirigente della mia scuola, qualche anno fa, a condividere questa lettera apparsa su Le Monde in un pezzo della scrittrice Annick Cojean. L’occasione era il Giorno della Memoria, ricorrenza sterile se non ricorda un fatto che il XX secolo ha inciso nella storia a caratteri di sangue: non basta essere istruiti per essere umani.
 
Il divorzio tra istruzione ed educazione è uno dei mali peggiori della scuola, frutto del luogo comune secondo cui esisterebbe un’istruzione neutra. Invece sempre si educa mentre si istruisce, perché la prima comunicazione è quella dell’essere, e solo dopo arrivano le parole, altrimenti non sarebbe necessaria la relazione viva con i ragazzi, ma basterebbe caricare le lezioni sulla rete. In senso stretto non esiste insegnamento in differita, ma solo in diretta.
 
Insegnare è una branca della drammaturgia. È l’essere dell’insegnante che genera la conoscenza, perché apre la via al desiderio dello studente, che scorge nel docente una vita più viva e libera grazie alla cultura e al lavoro ben fatto, e la vuole anche per sé. Lo ricordava con precisione il nobel Canetti nella sua autobiografia: «ogni cosa che ho imparato dalla viva voce dei miei insegnanti ha conservato la fisionomia di colui che me l’ha spiegata e nel ricordo è rimasta legata alla sua immagine. È questa la prima vera scuola di conoscenza dell’uomo». Le nozioni più raffinate da sole non rendono umani, tutto dipende da come gli insegnanti si relazionano tra loro e con i ragazzi, perché, prima delle nozioni, sono le relazioni a essere generative dell’io e del sapere. È nella relazione che si impara a sentire il valore del sé come destinatario del dono del sapere. Quali insegnanti siete tornati a ringraziare e per cosa? Per la lezione sulle leggi della termodinamica e su Leopardi, o per come vivevano e offrivano la termodinamica e Leopardi proprio a voi?
 
Qualche tempo fa mi scriveva uno studente: «Le racconto due esperienze. La prima: la faccia polverosa della scuola. Un professore, che aveva esordito in prima liceo con “siete troppi: vi ridurremo”, pochi giorni fa ha condensato l’amore per il suo lavoro in questa frase: “Un insegnante non deve avere cuore, deve avere un cuore di pietra... altrimenti farà preferenze”. Uno scherzo, pensavamo. Un mio compagno ribatte: “Ma no, prof! Un insegnante deve avere un cuore talmente grande da non fare nessuna preferenza!”. “No, no: un cuore di pietra”. Parlava seriamente. La seconda: la faccia luminosa della scuola. Quest’anno ho scoperto la poesia grazie al gesto straordinario di un ordinario professore di filosofia, che un giorno ci ha parlato della sua giovinezza e di come la poesia ai tempi occupasse la sua vita e impegnasse la sua fantasia. Interessato anche io dal momento che non avevo letto nessun grande poeta ho chiesto un consiglio. Il giorno seguente lo vedo estrarre dalla sua ventiquattrore un libricino invecchiato. Viene verso di me. “Questo è per te”. Mi ha regalato una delle sue copie di Elegie duinesi, di R.M. Rilke, il suo libro di poesia preferito. Il libro della sua giovinezza!».
 
La differenza tra le due impostazioni è proprio quella che corre tra chi si illude si possano separare istruzione ed educazione e chi invece le tiene naturalmente unite. Nel primo caso si pensa che il docente sia un distributore di nozioni, nel secondo la didattica è conseguenza della relazione. Il primo professore educa all’insensibilità di cuore, a non sentire l’unicità del tu, il secondo rende Rilke interessante prima di averne letta una riga. Il nesso che tiene unite istruzione ed educazione è nella realtà, e nessuna presa di posizione teorica le può nei fatti separare. L’elemento che fa sì che educazione e istruzione siano in efficace armonia è l’amore. Niente di sentimentale: l’amore è una presa di posizione nei confronti della realtà e ne permette la conoscenza, perché ne coglie il valore ancora potenziale da portare a compimento con l’impegno personale. Non si può aumentare la conoscenza di qualcosa senza che prima aumenti l’interesse nei confronti del soggetto in questione (vale per l’amicizia come per la chimica). L’amore genera conoscenza e la conoscenza ampliata rinnova l’amore: se il docente non «erotizza» la materia, la materia per quanto ben conosciuta resta inerte, come spiega Massimo Recalcati. Non esistono cose poco «interessanti», ma uomini e donne poco «interessati», perché le emozioni (la neurobiologia qui ci conforta) sono le guide che aprono la strada allo sviluppo cognitivo. Solo così gli studenti diventano soggetti di possibilità e non oggetti al peggio da ridurre o al meglio da riempire. È questa la rivoluzione copernicana chiesta a ogni docente: non sono gli alunni a ruotare attorno a lui ma il contrario. Un professore — il letto da rifare oggi lo suggerisce lo studente della lettera — è chiamato ad avere un cuore tale da non far preferenze perché preferisce tutti e ciascuno diversamente: sfida difficilissima (quanti errori, quante gioie...) ma decisiva.
 
È la stessa sfida narrata da Ovidio, nelle sue Metamorfosi, a proposito del mito di Pigmalione. Uno scultore che, deluso da tutte le donne, si innamora della donna ideale che ha scolpito nel marmo. Il suo trasporto è tale che gli dei trasformano la statua in una donna in carne e ossa. Il mito viene usato per descrivere lo sguardo educativo, il cosiddetto effetto-Pigmalione, per il quale se un docente (ma vale per ogni educatore) guarda un alunno convinto che farà bene, genererà in lui una fiducia in sé tale che, nella quasi totalità dei casi, anche a fronte di un’inadeguata disposizione iniziale, otterrà risultati positivi. L’effetto vale anche in negativo: se sono convinto che non vali, l’effetto sui risultati sarà coerente, anche a fronte di buone capacità. Lo sguardo educante non è mai neutro ma sempre profetico, nel bene e nel male. Ne abbiamo conferma quotidiana nel bambino che, appena caduto, si volge verso i genitori: se si mostrano allarmati ne provocano il pianto, se sorridenti il sorriso, quasi che il dolore, pur oggettivo, venga trasformato nello e dallo sguardo. I ragazzi non hanno bisogno di insegnanti amiconi né aguzzini, ma di uomini e donne capaci di guardarli come amabili soggetti di inedite possibilità a cui non fare sconti. E non è questione di missione o di poteri magici, ma di professionalità. Per questo l’appello è il momento chiave della giornata scolastica: segna il tono della relazione e fa sì che ognuno senta su di sé lo sguardo profetico che spinge a far bene come conseguenza dell’esser bene. Il contrario del «siete troppi, vi ridurremo», sterile autoritarismo, è il fecondo «sei unico, ti aumenterò». La parola autorità viene da augeo (aumentare): la esercita non chi ha il cuore molle o sprezzante, ma chi si impegna ad aumentare la vita che ha di fronte, per quanto fragile, difficile, resistente possa sembrare. Questa è l’istruzione di cui non diffido, perché ispirata da un umanesimo maturo, l’umanesimo dell’altro uomo, come lo chiama il filosofo Lévinas, che fa del tu il cuore dell’etica e smaschera il falso umanesimo dell’istruito incapace di sentire il tu, tanto da distruggerlo proprio attraverso l’istruzione.
 
Ma non è facile essere educatore in un sistema scolastico che asfissia di burocrazia e svilisce la dignità sociale ed economica, e in un contesto culturale che spesso attacca dall’alto (genitori) e dal basso (studenti). Ma questi elementi possono anche diventare scuse per non fare ciò che è alla portata di un uomo libero: prendersi cura di chi gli viene affidato. Soltanto così diventiamo pigmalioni di ragazzi dal cuore caldo e la testa fredda, a fronte del dilagare, tra gli adulti prima che tra i giovani, di teste calde e cuori freddi.

venerdì 2 febbraio 2018

Black Mirror

Uno specchio nero per riflettere che cosa?

Questa serie TV trovata su Netflix non ha protagonisti che ritornano e nemmeno luoghi in cui si svolge una vicenda e nemmeno un filo conduttore. O meglio, il filo rosso è quello della tecnologia e del futuro.

Come nella puntata 4x02 intitolata "Arkangel" dove ad una bimba viene immesso un chip che riesce per mezzo di un tablet a far vedere le immagini del suo campo visivo. La madre riesce ad avere la posizione della bimba e può aggiungere un filtro per la violenza che la figlia vede "pixelata". Il risultato è strano. Ogni volta che la bimba sente delle parolacce o vede scene di violenza le immagini risultano sbiadite e l'audio falsato.

Il risultato è da vedere dopo che la figlia protagonista della puntata diventa grande e le sue scelte possono essere condivise o meno dalla madre.

Le altre puntate della serie fanno riflettere su tutto ciò che la tecnologia può portare nella nostra vita e nel nostro mondo.

Nella prima puntata della prima stagione per esempio il sindaco di uno stato viene invitato da uno squilibrato a fare atti osceni con un maiale in mondo-visione e nel frattempo coinvolge la principessa del paese (precedentemente rapita) minacciando di ucciderla. E' il tema del potere delle immagini e della rete. Solo la scelta del sindaco può salvare la giovane vita della principessa. Ma non è una scelta per niente facile. Arrivano dalle proposte... ma cosa fare? 

Per il bene di una persona, per la sua stessa vita è possibile perdere la propria immagine e la propria statura morale? Un bel dilemma...

giovedì 1 febbraio 2018

Alternanza scuola-lavoro

Si trovano in rete commenti a questa attività scolastica. Commenti quasi sempre negativi che non riportano il vero senso di questa possibilità per gli alunni e i docenti.

Vorrei spezzare una lancia a favore dell'alternanza e del senso che si dà a questa attività.

Seguo già da due anni come tutor scolastico dei ragazzi che vanno in alternanza e devo dire che trovo ogni volta aziende disposte a “spendere” del tempo per i ragazzi che dimostrano responsabilità e attenzione.

Ogni volta che visito un’azienda trovo persone che mi accolgono e mi presentano i luoghi di lavoro e i loro lavoratori. Rappresento la scuola e molti si confidano sul fatto che l’alternanza porta gli studenti direttamente nel mondo del lavoro dando un orizzonte sul loro futuro. C’è da studiare ma anche da capire perché i docenti continuano a insistere sull’essere puntuali a scuola come sul posto di lavoro.

La scuola come palestra prima di essere immessi nel mondo del lavoro. Certo gli studenti vengono mandati come stagisti e quindi il loro rapporto di lavoro è su questo piano. La scuola li sostiene e li propone. Appena uno firma un contratto di lavoro non ha la scuola alle spalle ma sé stesso e la sua responsabilità.

A mio avviso l'alternanza è per tutti gli alunni un buon motivo per svegliarsi la mattina e andare sul posto di lavoro per timbrare l'ingresso e impegnarsi durante la giornata.

Si impara dalle cose piccole e questa non è solo una piccola cosa semplice ma è un gesto che ti fa diventare grande.

Chi sono gli estranei?

E' la domanda che mi sono fatto appena ho iniziato a leggere la serie del Trono di spade.

Chi sono gli estranei. Vengono rappresentati con gli occhi azzurri di ghiaccio e sempre avvolti dal colore azzurro/trasparente.

Non si dice nulla di loro e non parlano. Si sa che sono portatori di morte. Vengono comunemente chiamati i non-morti.

Ma come fanno a trasformarsi?
Tutto questo non è dato da sapere. Sono organizzati con dei "capi" che tengono dei gruppi e quando questi vengono distrutti si frantumano tutti gli altri. Un bel dilemma per chi è a capo dei sette regni e per tutte le casate del Trono di Spade.

Speravo di trovare delle soluzioni o delle anticipazioni vedendo tutte le sette stagioni e invece nulla, solo quello che ho scritto poco sopra.

Figure terrificanti e che incutono paura. Nella prossima stagione forse gli autori ci faranno scoprire qualcosa in più. Peccato che si debba aspettare almeno fino al 2019. Le riprese sono in corso da quest’anno.

Colui che raccontò la grazia

Dedico volentieri questo post alla pubblicazione di questo libro edito da Cittadella. Il libro del collega e amico Mauro che aiuta a ...