lunedì 29 gennaio 2018

Crescere in pochi minuti

Sullo schermo del tablet scorrono le immagini di ciò che tua figlia sta guardando in questo istante. Lo schermo è l’occhio della tua bambina. Non solo, il software è in grado di creare un filtro che le offusca la vista quando il livello di stress emotivo diventa eccessivo (un cane che le abbaia, il nonno che ha un malore). È ciò che ha immaginato l’autore di «Arkangel», la più significativa delle puntate della quarta stagione della serie tv Black Mirror, narrazioni di un futuro che è già adesso. Quello che spinge la protagonista, un’ansiosa madre single, a inserire un chip nell’inconsapevole testolina bionda di sua figlia, è il desiderio di protezione totale. Le conseguenze sulla crescita saranno coerenti: a eccessiva paura e smodato controllo corrispondono distruzione o apatia. Mai come oggi l’educazione dispone di così tanti studi e mezzi, eppure mai come oggi educare sembra esser diventato difficile. Un paradosso che ricorda un apologo di Borges. Un re, nel suo delirio di potenza, vuole dominare in un colpo d’occhio la vastità del suo impero, così incarica i suoi cartografi di disegnare una mappa dettagliata, ma non è mai soddisfatto, tanto da arrivare, pena la morte, a chiedere loro una carta in scala uno a uno. I cartografi riescono nell’impresa, ma la carta è inservibile e anche l’impero va in rovina. Esiste una preoccupante somiglianza tra noi e il re: abbiamo strumenti e informazioni in scala uno a uno, ma non sappiamo come muoverci e finiamo con l’improvvisare sotto la pressione delle nostre paure proiettandole sui ragazzi. Manca una mappa in scala utile per poter leggere i fenomeni nella giusta proporzione, manca l’essenziale: educare significa generare il nuovo, continuare a dare alla luce, aiutare a crescere. E si aiuta a crescere nella misura in cui si rende la persona autonoma, cioè capace di dare un giudizio sulla realtà. Quando i miei alunni, educatamente, cominciano a dissentire, so di aver lavorato nella giusta e paradossale direzione: liberarsi di me. L’educazione non si riduce a un mero adattamento o addestramento alla realtà, significa piuttosto incoraggiare, aiutando a eliminare le illusioni della conoscenza di sé che portano un adolescente a sottovalutarsi o sopravvalutarsi, a portare nella realtà qualcosa di nuovo, con tutti i rischi di fallire che questo comporta. L’adattamento alla realtà fine a se stesso ingabbia i ragazzi in una selva di regole che recintano la vita e da cui, così facendo, si libereranno acriticamente e violentemente o di cui diverranno prigionieri apatici. Aiutare a crescere vuol dire indicare perché vivere, per poter abbandonare la comoda posizione fetale e assumere quella eretta di chi esplora: chi di noi non ha almeno una piccola cicatrice generata dagli «spigoli» incontrati in giovane età? Come diceva Nietzsche: «Un uomo dotato di un perché può affrontare quasi qualsiasi come». Ma dove è il perché? Perché vivo? Per chi vivo? In assenza di un progetto riempiamo la loro vita di regole senza un gioco, o li illudiamo di potere giocare senza che ci siano regole. Il letto che questo lunedì vorrei rifare con voi è quello della fiducia, il primo elemento capace di mettere in moto la libertà come esplorazione del reale, di aprire lo spazio del desiderio e del coraggio. Ma a cosa dare fiducia? Alle potenzialità interne al soggetto (figlio o studente), proprie della natura umana e specifiche dell’individuo in quella fase della crescita, cioè al nuovo che il ragazzo è e può fare. Soltanto così l’educazione si svincola dalla paura, dal controllo, e si apre alla chiamata per nome. Perché mai dovrebbe uscire di casa chi non sa che cosa portare oltre l’uscio? Educare è mettere le persone a rischio, non proteggerle da ogni caduta, non sostituirsi a loro, ma introdurle nel campo di battaglia da protagonisti (parola che indica colui che combatte in prima linea, non un narciso in cerca di applausi). Ma quanto è difficile trovare il giusto equilibrio tra controllare e lasciar andare, quanti dubbi, quanti errori, tutti patimenti comunque preferibili ad adolescenze protratte sine die o orfani senza direzione. In fondo quello che la mamma protagonista di «Arkangel» vorrebbe evitare alla figlia (e a se stessa) sono le delusioni, i dolori e i fallimenti, vorrebbe cioè tenerla ancora in grembo. Invece la vita, là fuori, è fatta di limiti ed è proprio scontrandosi con quei limiti (delusioni, dolori, fallimenti) che un infante abbandona il pensiero magico e diventa un fante: cioè colui che va alla guerra della vita con la propria testa e il proprio corpo, con la mappa che i genitori gli hanno fornito per orientarsi al buio, nelle intemperie dei giorni. Il nostro compito è quello di dare un senso (significato e direzione) alle loro frustrazioni e contenerle, non eliminarle. Riuscite a immaginare un quadro fatto di sola luce, senza ombre? Forse possiamo provare a rifare il letto delle piccole e progressive responsabilità da affidare a bambini, adolescenti, giovani perché conoscano i propri limiti e qualità. Quante cose affidiamo loro nella vita familiare? Quali compiti specifici? A scuola vale lo stesso: dando a tutti la stessa minestra, purtroppo non c’è tempo e spazio per sviluppare talenti specifici e interessi particolari, non c’è traccia di opzione interna ai percorsi. Mi ricordo di una ragazza stufa delle approssimative lezioni di italiano di una docente svogliata e che recuperava ponendo domande a un professore di un’altra classe, durante l’intervallo. Decise di cambiare sezione, benché fosse al quarto anno di superiori. Tutti gli adulti di riferimento (genitori, preside, altri docenti) privilegiavano la via della sicurezza: sei alla fine, lascia perdere, tieni duro. Lei invece perseguiva la via della salvezza, perché voleva coltivare la sua passione. La incoraggiai a fare il grande passo. Mi scrisse alla fine dell’anno successivo, felice, per l’esito brillante della maturità e per il senso di efficacia, autonomia, sfida che quell’avventura le aveva dato. La vita era nelle sue mani e non poteva rovinare i suoi talenti per quieto e disperato vivere. Aveva affrontato la paura (altrui prima che sua): per questo era maturata davvero, non certo per l’esame. «Racconta di quella volta che hai ricevuto un dono che ti ha fatto felice»: così recitava il titolo di un tema assegnato a un dodicenne qualche settimana fa. Che cosa vi aspettereste? Quale oggetto? Quale videogioco? Queste le sue parole: «Mi ricordo un fatto avvenuto cinque anni fa. Era sera e stava piovendo, mia madre e mio padre dovevano uscire, mio fratello era a un allenamento e non sarebbe tornato prima delle 21.15. Dato che erano le 20.40 ho pensato che avrebbero chiamato qualcuno per tenermi tranquillo e mettermi a letto, invece mio padre mi ha comunicato che, a parer suo, io fossi abbastanza grande da poter passare un pezzo di serata da solo. La mamma non era molto d’accordo ma poi acconsentì. Questo è stato uno dei regali più belli della mia vita e quei 35 minuti mi hanno fatto sentire importante e mi hanno fatto capire il senso della fiducia e il fatto che le persone accanto a me si accorgessero che stavo diventando autonomo». Forse bastano 35 minuti per sapere ciò che diceva un personaggio shakespeariano: «se l’anima è pronta allora anche le cose sono pronte» e non il contrario. Se provassimo, a casa, a scuola, a incoraggiare questa autonomia con piccoli o grandi responsabilità che diano ai ragazzi senso di autonomia, efficacia e accettazione degli eventuali fallimenti? Se invece di riempire le loro tasche di oggetti rassicuranti, riempissimo le loro vite di progetti rischiosi? 
(Alessandro D'Avenia - dal Corriere della Sera)
 Crescere dando fiducia e libertà. Sono d’accordo con D’Avenia sul fatto di dare responsabilità e fiducia ai ragazzi. Ma anche la libertà quella vera. Non comunicare con atteggiamenti e parole che essere liberi è fare “ciò che si vuole” ma essere liberi di scegliere cosa “fare da grandi”.

Mi hanno colpito le parole di un ragazzo che si è presentato adesso a metà anno alla nostra scuola perché si era stufato di studiare nella scuola scelta dal padre. Appunto, i ragazzi hanno bisogno di essere guidati per fare delle scelte consapevoli. Altrimenti fanno 4 o 5 anni in una scuola e poi alla fine dopo la maturità dicono ai propri genitori che hanno finito la scuola e ora possono scegliere quello che vogliono.

Passione. Ogni persona ha bisogno di sapere e cercare i propri interessi e di alimentare le proprie passioni. Sono ragazzi che sanno come si fa a diventare grandi ma se “i grandi” tarpano loro le ali non saranno più capaci di volare, di prendere il volo.

Altro caso quello di alcuni ragazzi espulsi dalla scuola perché troppo sopra le righe. Dove abbiamo sbagliato? È una tragedia scolastica? È un fallimento educativo?

Secondo me no. Si è cercato di fare tutto il possibile cercando di dare tempo e spazi per capire. Si chiamano i genitori, si sospende il ragazzo, si fanno censure ma c’è un punto di non ritorno dove la scuola oltre non può andare e non può pretendere di varcare la linea di demarcazione. È la linea dell’affidamento ai servizi sociali. Laddove la scuola non è autorizzata a metterci la faccia entrano in scena altri soggetti che sono chiamati ad intervenire.

L’unico dubbio che rimane ad ogni docente è il futuro di questi ragazzi che sono lasciati a loro stessi… vagano per le strade e non sanno dove andare e cosa fare.

Non c’ è uno schema preciso e un modello in campo educativo. Ogni persona è diversa dall’altra e ogni progetto è differente. Resta il fatto che se qualche ragazzo sta sbagliando lo si deve riprendere e fargli capire quali sono le “regole” da non superare. In primis rispetto delle persone e dei luoghi.

È una sfida, ogni giorno, una sfida educativa nei confronti dei ragazzi che stanno crescendo. Mi piace la metafora che qualche anno fa avevo usato per spiegare l’impegno educativo.

L’educatore è come uno che deve far imparare a nuotare senza dimenticarsi di rimanere a galla.
Sappiamo come si nuota, quali sono i modi per farlo, spieghiamo come è fatta l’acqua e perché si galleggia,  ma non dimentichiamoci di non affondare alla prima difficoltà.

Mentre scrivo mi arriva una notizia che mi fa sobbalzare dalla sedia. Una ragazza giovane si toglie la vita. Non la conoscevo direttamente.
Resto senza parole e tutto quello scritto sopra prende un’altra piega.
Educazione e crescita strettamente collegate tra di loro. Fino a che punto arriva una persona per togliersi la vita? È una domanda forte e con la stessa forza non riesco a trovare una risposta. Riesco solo a trovare ancora di più rispetto per le persone, rispetto per la vita. Una giovane vita ha tutto il nostro rispetto perché in fondo tutti noi siamo responsabili. Quali sono i motivi di questo gesto non lo possiamo sapere. Ci interroga si, molto e ci fa pensare a tutte le cose belle che ogni giorno viviamo e che la vita in fondo è un attimo, è un dono e vale la pena di essere vissuta sempre.



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