mercoledì 14 marzo 2018

La formula dell'acqua


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Due atomi di idrogeno e uno di ossigeno: considerate «la formula» dell’acqua, e solo dopo «la forma» come ha fatto il Guillermo del Toro da Oscar. Nella molecola H2O ciascun elemento dà all’altro ciò di cui ha bisogno per costruire il legame più semplice e compiuto dell’universo. È da questa relazione che dipende la vita. La formula dell’acqua diventa così la più cristallina lezione sulle relazioni: esse danno vita, sono generative e rigenerative, solo quando uno dà all’altro ciò di cui l’altro ha bisogno, altrimenti sono degenerative. Lo mostrano le parole di una studentessa rinata in una nuova scuola dopo una bocciatura: «Fu la frase di un docente a farmi gettare la spugna: “Sai qual è il tuo problema? Che anche se t’impegnassi non riusciresti a raggiungere il livello della tua classe”. Uscii da quella scuola per non tornarvi più. Ora sono felice. Ho trovato persone che mi hanno permesso di ricominciare, a cui non importava che avessi perso un anno. Oggi sono tra le ragazze con la media più alta della scuola e la parte migliore è che non m’interessa, sa perché? Perché mi hanno insegnato a studiare per stare bene, per poter affrontare ogni tipo di conversazione, per poter pensare liberamente. L’hanno fatto involontariamente, si sono limitati a entrare in classe e a fare il loro lavoro, e sanno farlo davvero bene perché lo amano. Vedo i loro occhi brillare prima dell’inizio di ogni lezione, anche quando sono stanchi. Il professore di filosofia una volta ci ha parlato del legame che esiste nello Zen tra maestro e allievo e che lui applica alle lezioni: i shin den shin che significa da mente a mente, da cuore a cuore. È proprio ciò che si crea durante le loro lezioni, un legame che parte dalla mente e arriva al cuore, prima ancora dell’uso delle parole». La rinascita di questa ragazza è l’effetto di quelli che potremmo chiamare «legami H2O».

Siamo immersi in tanti tipi di relazioni e dalla loro qualità dipende tutta la nostra vita. Non si tratta di sentimentalismo, ma del puro e semplice frutto dell’evoluzione umana. Siamo l’unico essere vivente che rimane «precario» a lungo, infatti a differenza degli altri animali l’autonomia del bambino è frutto di un processo molto lento. Perché la natura ci mantiene fragili per un tempo di vita tanto prolungato? Il fine è ottenere le fondamentali relazioni di cura che garantiscono al bambino e all’adolescente l’ambiente adatto perché il cervello concluda il suo sviluppo attorno ai 18-20 anni. La natura non fa niente inutilmente e per questo motivo quel tempo va curato in modo speciale, perché si attivino e strutturino le connessioni necessarie a sopravvivere, ma soprattutto a vivere secondo la specificità umana. E ciò dipende quasi esclusivamente dalle relazioni in cui siamo immersi.

La lunga «fragilità» del bambino e dell’adolescente genera un «sistema di cura» unico rispetto agli altri animali, ed è definito per questo dalla scienza «a tre opzioni», perché sviluppa tre tipi di relazioni: il legame stabile della coppia dei genitori che hanno fornito le due metà del corredo genetico (per gli animali la cura è appannaggio quasi esclusivo della madre); il ruolo delle nonne (dei nonni come conseguenza), uniche femmine a vivere a lungo, quando smettono di essere fertili, per essere «generative» con i nipoti; le cosiddette relazioni alloparentali, cioè le cure prestate ai bambini o dalla cerchia parentale o da estranei con compiti educativi. Gli antropologi ci confermano che la combinazione di queste relazioni è il frutto del modo unico in cui l’uomo protegge la sua lenta ma straordinaria crescita. Alla luce di questo Alison Gopnik, luminare dello sviluppo infantile e adolescenziale, afferma che fare i genitori non è un lavoro, e non perché non richieda impegno, ma perché educare non significa «produrre» oggetti. Lo scopo dei genitori (e di tutti gli educatori) non è, infatti, plasmare un particolare tipo di bambino, cosa che riduce l’educazione a una serie di prestazioni da ottenere e genera, in questo modo, ansia in chi educa e in chi viene educato. I genitori sono invece chiamati a curare le relazioni, tra loro e attorno al bambino. Allo stesso modo i docenti sanno che insegnare non è riempire una testa di nozioni, ma mettere quella testa in condizioni di imparare autonomamente, perché l’apprendimento non si può produrre ma solo facilitare. Ciò che fa crescere un bambino o un adolescente non è qualcosa che riguarda solo lui, ma innanzitutto noi, che cresciamo nel farlo crescere. In altre parole, possiamo dire che noi non ci prendiamo cura dei bambini perché li amiamo, ma li amiamo perché ci prendiamo cura di loro. E loro di noi. Le cure richieste da un bambino o da un adolescente generano effetti che superano la relazione stessa: nelle relazioni generative 1+1 fa 3, proprio come l’acqua.

Solo così fare il genitore, ed educare più in generale (dal docente alla tata), viene restituito alla sua più naturale vocazione: prendersi cura. Di cosa? Di una relazione capace di dare all’altro ciò di cui ha veramente bisogno. Ci avviliamo quando figli e alunni non risultano confacenti alle nostre aspettative, ma prima facciamo i conti con questo necessario smacco e meglio è, per il semplice motivo che la crescita non è la misurazione di un risultato controllabile, ma il frutto dell’avere messo il bambino o l’adolescente nelle condizioni migliori di crescere, cioè di diventare quello che è già ma non ancora. Lo dico spesso ai genitori dei miei studenti: loro non somigliano a voi presi singolarmente, ma alla qualità della relazione fra voi due e a quella con loro. La forza interiore a cui attingo nella mia vita di adulto l’ho ricevuta dalla forza del legame tra i miei genitori durante la mia formazione: nel bene e nel male una parola o un gesto in quel periodo producono l’eco per tutta la vita.

Più di tutti gli animali l’uomo reagisce all’atto stesso della cura, cioè cresce grazie alla qualità e alla molteplicità delle relazioni. Se un bambino è immerso in legami H2O riceverà da queste relazioni ciò di cui ha più bisogno per compiersi e, senza saperlo, farà lo stesso con chi lo cura: l’educatore, infatti, amplierà la sua capacità di amare. Non è intasando il tempo di un bambino con mille corsi che si ottiene l’adulto che speriamo, ma passando molto tempo a giocare con lui, perché il gioco, non avendo secondi fini, è la cura stessa della relazione e la palestra migliore per rendere il cervello duttile e aperto all’esplorazione. Serve molto di più curare pranzi e cene insieme che dare mille ordini, perché il tempo che gli umani dedicano al cibo non è tempo dedicato a nutrirsi, ma a stare insieme mentre si nutrono. Abbiamo fatto tavoli e sedie per questo. Mi ricordo con gratitudine quando mia madre mi aspettava fino a tardi per non lasciarmi pranzare da solo dopo la scuola. Non è obbligando un adolescente a infinite ore di scuola che si garantisce la passione per l’apprendimento, ma è trasformando quell’ora in spazio di relazioni profonde con l’argomento studiato e, attraverso di esso, con se stessi e gli altri. Non posso scordare quando il mio professore ci fece ascoltare una sonata di Beethoven per raccontarci il romanticismo. Da quel giorno il pianoforte del maestro mi accompagna e imprime il ritmo che voglio dare alle pagine che scrivo. Gioco, tavola, ore di lezione sono solo alcuni esempi di spazi ordinari per relazioni H2O. 

Una scuola basata sulle prestazioni più che sulle relazioni è inefficace, perché l’apprendimento non è addestramento alla performance come per un animale, ma assunzione autonoma del sapere consolidato per affrontare qualsiasi prova (lo specifico del cervello giovane è innovare partendo da ciò che è valido in una tradizione). Gli educatori non sono falegnami, Geppetto non può rendere Pinocchio un bambino vero con i suoi strumenti. Gli educatori somigliano più a giardinieri che mettono terra e semi in condizione di dar frutto, ma il modo in cui accadrà è soggetto alle variabili del caos della vita e soprattutto al tempo, che in biologia non conosce sconti o recuperi tardivi. Il tempo non dato a un bambino o a un adolescente non ci viene restituito.§

Cercare di determinare il risultato di uno studente o un figlio sulla base di una catena di montaggio è dispendioso e inutile, invece tutto sta nell’immergere i ragazzi in relazioni H2O. Questo li renderà forti ma al contempo malleabili, capaci di trovare soluzioni nuove e adeguarsi creativamente all’imprevisto (soprattutto nei periodi di crisi). Oggi preferiamo curare le nostre aspettative moltiplicando rassicuranti performance esteriori, più che curare le relazioni con attenzioni che ci impegnano in prima persona. Eppure le righe della studentessa mostrano con chiarezza qual è il letto da rifare oggi, che cosa fa morire e rinascere i ragazzi: curare la qualità delle relazioni più che la quantità delle prestazioni.

La formula dell’acqua genera la forma dell’acqua, in cui convivono profondità e superficie, forza e versatilità, trasparenza e colori, freschezza e fecondità, continuità e novità... 

Tutte le qualità che auguriamo ai nostri studenti, ai nostri figli.



sabato 10 marzo 2018

La forma dell'acqua vale tutti i premi che ha ricevuto

Dal regista visionario del “Labirinto del fauno” e “Crimson peak” una nuova avvincente avventura ambientata negli anni 60.

Il libro è molto più descrittivo, mentre il film fa la sintesi della vicenda. Devo dire che ho apprezzato molto di più il film che nelle due ore di visione ti fa immergere nella vicenda. Passa l’idea di collaborazione e amicizia che c’è tra le due donne delle pulizie che si sostengono a vicenda. La protagonista Elisa attraverso i segni cerca di comunicare. Sta proprio qui l’elemento interessante di incontro con la “creatura” il “Deus Branchia”. I due personaggi principali si incontrarono attraverso le mani, gli occhi, i silenzi. È o non è il linguaggio dell’amore?

Non si capisce fino a che punto “la risorsa”, che non ha un nome, possa essere più umana o “animalesca”. Forse sono più “animalesche” le persone che girano attorno ai luoghi di vita di Elisa. 

Infine latro elemento importante è l’acqua che come recita la poesia finale sta attorno alla creatura e la avvolge. La sensazione è proprio questa. Quando si nuota in acqua, al mare o in piscina ci si sente avvolti e cullati con una sensazione di tenerezza infantile. Quasi come essere avvolti dalla placenta nel grembo materno. Forse è proprio questo che ci fa sentire così bene. Se poi l’acqua è acqua termale calda allora la sensazione si amplifica. Ci si sente immersi completamente e i suoni in immersione sono ovattati. 

Concludo con i versi della poesia conclusiva.

Incapace di percepire la forma di Te, ti trovo tutto intorno a me. 
La tua presenza mi riempie gli occhi del tuo amore, 
umilia il mio cuore, 
perché tu sei ovunque.






mercoledì 7 marzo 2018

L'orso siberiano




Riporto questo video perché esprime il modo di fare di un educatore che si propone e non impone rispetto ai ragazzi e bambini che ha davanti.

E' la storia di Franco Nembrini. Qualche anno fa era preside della Traccia (calcinate - Bergamo). Aveva fatto un gemellaggio con una scuola nella siberia. La scuola siberiana aveva regalato alla scuola bergamasca una pelli di un orso siberiano con tanto di testa dell'orso imbalsamato. Franco voleva far vedere agli studenti delle elementari l'orso alla fine di una giornata scolastica. Allora prepara il tutto su un tavolo nell'aula magna prima della fine della scuola. 

Quindici minuti prima arrivano le maestre e la direttrice tutte agitate perché hanno saputo dalle mamme che non vogliono far vedere l'orso e soprattutto dire che è morto ammazzato. (mamme anche animaliste e non...)

Il preside ha una genialata. Al momento della presentazione chiede: "Sapete come è morto l'orso?". "In Siberia fa talmente tanto, ma tanto freddo che è morto di polmonite". Risata generale e finale. Tutti a casa.

Il giorno dopo Nembrini chiede alle maestre ancora prima di iniziare le lezioni di fare questa domanda in classe agli studenti: "Bambini, come è morto l'orso?". E tutti in coro hanno risposto: "E' morto ammazzato"

E' prorpio vero che i bambini non sono stupidi e hanno capito benissimo com'è la vita e come ha fatto l'orso ad arrivare sulle loro cattedre.

Grande Nembrini!

(per la cronaca: questo episodio è stato citato anche a radio dee jay da Nicola Savino che ha acclamato Franco Nembrini Presidente!)

lunedì 5 marzo 2018

Desiderio e passione: la nostra vita


«Ultimo anno, cinque insufficienze nel primo trimestre. Dovrebbero preoccuparmi, ad agitarmi è invece la mancanza di passioni di mio figlio, il non studio credo sia solo la conseguenza. Sembra appagato solo quando è vestito in un certo modo ed esce con gli amici. Da anni ha questa resistenza allo studio e fino ad ora mi son sempre detta: maturerà. Ha recuperato insufficienze peggiori, non vuole esser bocciato, ma quando gli ho chiesto cosa vuol fare nella vita mi ha detto che non c’è niente che voglia fare, niente che lo appassioni». Sono le parole di uno dei tanti genitori amareggiati per un figlio che, alla fine del percorso scolastico, sembra non aver raggiunto il fine dell’adolescenza: elaborare la propria unicità a partire dalla conoscenza di sé, liberandosi così dalle illusioni che lo portano a sottovalutarsi o a sovrastimarsi. Il ragazzo si aggrappa a un’identità momentanea e passeggera vestendosi alla moda tra gli amici, ma non si appassiona a nulla, perché la passione, a differenza del piacere, riguarda il futuro e non il presente: la passione non si compra ma si scopre, si coltiva e spinge a entrare nel territorio incerto del possibile per realizzarsi, non a caso passione ha la stessa radice di pazienza. «Passione» è infatti una parola felicemente a due facce, perché indica sia il trasporto erotico sia la capacità di soffrire per qualcosa.

Ai miei studenti faccio imparare a memoria il proemio dell’Odissea: devono ricordare per tutta la vita che Ulisse è colui che «conobbe le città e i pensieri di molti uomini,/molti dolori patì sul mare nell’animo suo,/per acquistare a sé la vita e il ritorno ai compagni». In altre parole, la conoscenza e la passione come strumenti di salvezza, propria e altrui. La vita si fonda su questo eroico caposaldo: per salvarsi bisogna conoscere e patire. Oggi purtroppo però alla salvezza, intesa come esplorazione rischiosa del futuro, preferiamo spesso la sicurezza, che ci protegge da ogni caduta ma ci impedisce la presa sulla realtà: creiamo una bolla che ci serve a confermare fino alla noia ciò che già siamo e crediamo, quando è invece solo il contatto faticoso con «l’altro da me» a restituirci la consistenza appassionante delle cose. Si è persa quella che Andrea Marcolongo chiama nel suo nuovo libro «La misura eroica» del vivere. L’autrice, commentando il mito degli Argonauti, giovani a caccia di avventure per definire se stessi, ricorda che Platone aveva inventato un’etimologia che fa discendere la parola «eroe» da «eros»: non c’è eroe senza eros perché senza passione non si lascia il proprio recinto confortevole per intraprendere la via che porta al compimento di sé, poiché anche se si patisce ne vale la pena.


L’apatia dei ragazzi è argomento frequente delle lettere che ricevo, a conferma che viviamo in un’epoca di passioni infeconde, cioè senza eros e quindi senza uscita da sé. Prevalgono quelle autoreferenziali (narcisistiche), autodistruttive (le dipendenze) o distruttive (varie forme di violenza), tutte frutto del desiderio bloccato per assenza di chiamata e quindi mancanza di futuro come esplorazione del possibile. Come fare a risvegliare il desiderio, affrancarlo dalla paralisi della paura e dell’iper-sicurezza, dell’inquieto adeguarsi a piaceri troppo rapidi per dare consistenza alla felicità? Come restituire alla vita quotidiana una misura eroica e appassionata? Come andare oltre le passioni tristi?


Il fine che muove Ulisse è il ritorno a Itaca, per sé e i compagni. Diventare responsabili di qualcuno è accensione della vita, la scintilla che dà fuoco al desiderio umano di compiersi e superare se stessi. I ragazzi si ripiegano nell’apatia, che a volte produce violenza, proprio per sentire meno il dolore del desiderio imprigionato, del compimento interrotto: avere qualcosa per cui patire è ciò che trasforma una comparsa in un protagonista (in greco colui che combatte in prima fila), ma prima bisogna aver reso la pietrosa Itaca il luogo più bello per cui lottare, proprio grazie ai legami che la rendono «Itaca». Solo così si può realizzare ciò a cui ogni uomo si scopre chiamato: diventare se stesso, evitando sia la comoda inerzia sia la scomoda fuga da sé spesso nascosta dall’accelerazione smisurata del ritmo della vita. Tornare a Itaca consente di trasformare ciò che ci è dato e non abbiamo scelto, cioè il nostro destino, in una destinazione, che si manifesta in una vera e propria novità da creare con quegli elementi. Ma dov’è finita Itaca?


Viktor Frankl, psichiatra sopravvissuto ai campi di concentramento racconta che, tra i compagni di prigionia, riuscivano a salvarsi solo quelli che riattivavano il desiderio: «Due compagni rinchiusi con me nel lager rivelarono “di non sperare più nulla dalla vita”. Ad entrambi si poteva chiarire ancora che la vita si aspettava qualcosa da loro, che qualcosa li aspettava nel futuro. In effetti risultò che una persona attendeva uno dei due: il figlio adorato “attendeva” all’estero il padre. L’altro non aveva nessuno, ma l’“attendeva” una cosa: la sua opera! Infatti quest’uomo, uno studioso, aveva pubblicato su un certo tema una collana di testi che attendeva il suo compimento. Quest’uomo era indispensabile per quest’opera; nessuno avrebbe potuto sostituirlo, proprio come l’altro era insostituibile nell’amore del figlio: quell’unicità e originalità che distinguono ogni individuo e che conferiscono — esse sole — alla vita il suo significato. L’essere indispensabile e insostituibile fanno apparire nella giusta misura, non appena affiorano nella coscienza, la responsabilità che un uomo ha della sua vita. Un uomo pienamente consapevole di questa responsabilità nei confronti dell’opera che l’attende o della persona che lo ama e l’aspetta, non potrà mai gettar via la sua esistenza» (Uno psicologo nei lager).


Persino in condizioni disperate il desiderio può essere risvegliato aiutando a passare dal «non mi aspetto nulla dalla vita» al «che cosa la vita si aspetta da me?», solo la risposta a questa domanda rende l’uomo insostituibile e l’esistenza appassionante. La risposta è oggi ostacolata anche dalla concezione del talento come autoaffermazione contro gli altri, quando proprio il talento è la strada che porta a compiere se stessi compiendo anche gli altri e il mondo, in un gioco in cui vincono tutti, sia chi dà sia chi riceve. Ho deciso di fare l’insegnante e farlo in un certo modo perché questo dà senso alla mia esistenza, e l’energia impegnata per i ragazzi cresce invece di esaurirsi, perché so che mi aspettano, anche quando il sistema scuola mi deprime. Ma io lavoro per loro, non per l’ottusità del sistema.


Il talento è un dono fatto per esser donato, come sa bene l’artista, la sua opera non è per sé ma per un ampliamento del mondo. Leopardi in uno degli ultimi pensieri dello Zibaldone scriveva: «Uno dei maggiori frutti che mi propongo e spero dai miei versi è contemplare le bellezze e i pregi di un figliuolo, non con altra soddisfazione che di aver fatta una cosa bella al mondo; sia essa o non sia conosciuta per tale da altrui». Fare qualcosa di bello al mondo è il desiderio radicale di ogni uomo, e il riconoscimento altrui ne è solo una conseguenza possibile e non necessaria, perché la felicità consiste puramente nel realizzare «la cosa bella». Anche il poeta contemporaneo Daniele Mencarelli lo ha sperimentato con sofferenze enormi, come racconta nel suo recente romanzo autobiografico «La casa degli sguardi». Distrutto dalla dipendenza dall’alcol, in preda alla disperazione chiede aiuto a un amico che gli trova un posto di addetto alle pulizie nell’ospedale pediatrico Bambino Gesù di Roma. Il dolore dei piccoli e la responsabilità di un lavoro da far bene per loro risvegliano la passione quasi distrutta per la vita. Proprio in mezzo al patire dei bambini trova la sua Itaca, tocca a lui prendersi cura di loro che lo attendono, forte e lucido, ogni giorno: «Non mi posso più permettere di fuggire, d’avere la vista annebbiata, voglio guardare in faccia le cose».


Noi diventiamo capaci di «attendere a» (bella forma italiana per indicare il prendersi cura) qualcosa o qualcuno, solo quando diventiamo consapevoli che quel qualcosa o qualcuno ci «attende». La mia passione cresce quando attendo a un alunno, a una pagina, perché sono insostituibilmente responsabile di quell’alunno e di quella pagina che aspettano ogni mio sforzo creativo. Il letto da rifare oggi è un compito che la famiglia e la scuola non possono improvvisare, perché non è frutto del caso ma di azioni quotidiane, per permettere ai ragazzi di riconoscersi unici e insostituibili per qualcuno o qualcosa. Uno dei migliori giovani compositori contemporanei, Nils Frahm, racconta in un’intervista al NYTimes di dover tutto al suo maestro di pianoforte che, quando Nils era un adolescente annoiato e indisciplinato, «mi fece capire che avevo bisogno di soffrire per qualcosa di molto bello»

Senza soffrire per il bello del mondo non troveremo mai nulla di bello da fare al mondo. (Alessandro D'Avenia)

Dopo le elezioni e la tragica notizia della morte del giocatore Davide Astori queste parole passano in sordina. Eppure le parole "desiderio" e "passione" sono le parole che sostengono la nostra vita politica meno importante della vita di una persona.
Oggi i miei studenti mi hanno fatto riflettere sui prossimi scenari rispetto alle elezioni. Abbiamo un paese che non ha un governo di maggioranza. Non ci sono molti scenari aperti. Le due fazioni cercheranno di formare un governo. Si tenterà di formarlo.
Dall'altra parte la morte di un calciatore ci interroga sulla vita e sulla morte. Ma non solo di un calciatore (con tutto il rispetto per la famiglia, ci mancherebbe) ma ogni persona giovane che muore senza un motivo ci mette davanti a delle domande.
Finisco la giornata dopo un confronto in classe su queste due notizie che hanno smosso gli animi (e per fortuna...) e vado a riposarmi con più domande che risposte.
Cosa desideriamo per la nostra vita?
Cosa desideriamo per il nostro paese?
La vita ogni giorno è una grande avventura. C'è chi, come Davide, sta già vivendo il secondo tempo della partita più importante della sua vita. Il primo tempo è stato tutto quello che ha donato alla sua famiglia e alle persone che ha incontrato, ora vive il secondo tempo, quello infinito, quello che rimette le mani e la vita nell'Assoluto.



Colui che raccontò la grazia

Dedico volentieri questo post alla pubblicazione di questo libro edito da Cittadella. Il libro del collega e amico Mauro che aiuta a ...